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Data: 13/03/2018
Testata giornalistica: Il Messaggero
Pd, tregua interna Martina reggente: tocca a M5S e Lega. Ma dietro i no si fa strada un'idea: l'esecutivo di scopo del Presidente

ROMA Tregua armata nel Pd del dopo scoppola elettorale. Non si elegge alcun nuovo segretario, ci si affida a un reggente nella persona di Maurizio Martina, l'attuale vice, che assicura una «gestione collegiale» di qui a non si sa fino a quando. Niente primarie a breve (e forse neanche a lunga gittata), niente gazebo, ma riflessione, discussione, «capire che cosa non va», riprendere il dialogo con la società, con gli iscritti, e nel frattempo provare a dire la propria sui passaggi istituzionali e di governo.
E' la sintesi della riunione di direzione del Pd, apertasi con la lettura delle due righe di commiato di Matteo Renzi, proseguita con la relazione di Martina condita con l'iscrizione a parlare di ben 58 esponenti. Verso il convitato di pietra Renzi nessuno ha voluto infierire, neanche Andrea Orlando capo della minoranza, che come tutti ha detto che la sconfitta «non è di uno solo», anche se «le responsabilità non sono uguali per tutti», invitando al contempo l'ormai ex segretario a evitare di seguire il Mao Tse-tung uso a sparare sul quartier generale (anche se quella condotta alla fine portò fortuna al futuro grande timoniere).
LA CONFERMA
Al termine, arriva il commento di Paolo Gentiloni, che suona come la conferma di una rottura avvenuta tra ex leader e premier: «Le dimissioni di Renzi sono un esempio di stile e coerenza politica, ora avanti con umiltà e coesione, fiducia in Martina» (e giovedì Gentiloni sarà con Veltroni alla presentazione di un libro). Martina ha evitato di seguire le orme di Folena, reggente dell'allora Ds, che faceva relazioni di due ore provocando le ire dei capi post comunisti. Il ministro dell'Agricoltura si è limitato a un'oretta di discorso, ha analizzato la sconfitta («non abbiamo intercettato il voto degli esclusi»), ha invocato e promesso collegialità interna, ha coniugato quale dovrebbe essere la condotta dem, «il Pd alternativa popolare ai populisti», e ha concluso con un'esortazione di Churchill, strappandola a Carlo Calenda, presente come promesso ai lavori: «La sconfitta non è mai fatale, il successo non è mai definitivo».
Quanto alle prospettive di governo, ribadito il no a fare da stampella a un esecutivo dimaiesco, ma sì a giocare un ruolo sulla scena politica, sia per evitare elezioni a breve, sia perché «il Pd è la seconda forza nel Paese, non può ritrarsi sull'Aventino»; la linea ufficiale al momento rimane quella dei «vincitori delle elezioni trovino l'intesa tra di loro e governino». Un'impostazione approvata a larghissima maggioranza, con 7 astenuti riconducibili alla minoranza di Emiliano, che ha ribadito il suo sì a un sostegno ai cinquestelle («vedrete, risulterà una strada obbligata»), con Chiamparino che ha proposto un referendum tra gli iscritti. Anche Delrio ha proposto lo schema «prima le idee, poi i nomi». Non è mancato lo scontro fra esponenti campani con il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca che ha denunciato «una gestione familistica», accusa che gli è stata subito ritorta da Gennaro Migliore. Con queste premesse, all'assemblea nazionale prevista per metà aprile non dovrebbe andare in scena uno scontro interno per l'elezione di un nuovo segretario che a sua volta traghetti fino al congresso: «Abbiamo bisogno di riflessione, non di gente che in una giornata ai gazebo decida il prossimo leader». I nomi in pista comunque ci sono: Delrio, Richetti, Zingaretti ma non è esclusa una prosecuzione del mandato di Martina.
Su questo, Gianni Cuperlo è stato netto, mettendo in discussione tutto quanto è stato fatto dai precedenti leader nonché dai cosiddetti padri nobili. «Va rovesciato lo schema che è stato di Veltroni, Bersani e Renzi, nonché di qualche padre nobile che ha montato e rimontato la tenda, quello schema che anziché partire da un pensiero attrezzato sulla società e sui bisogni ha affermato il principio del primato della guida, associando il concetto di comando a quello di modernità», ha scandito Cuperlo.
Rifare, rifondare, rimotivare il Pd, questo Pd? In tanti si sono cimentati, con Roberto Morassut che ha proposto una terza via: «Il Pd così non attrae, è un luogo di compensazione di correnti, sciogliamolo e trasformiamolo in un movimento in grado di accogliere personalità e movimenti». «Io sono pronto a sciogliere la mia corrente», la promessa di Orlando.

Ma dietro i no si fa strada un'idea: l'esecutivo di scopo del Presidente

ROMA No a un governo con M5S, d'accordo. Su questo il Pd è compatto «al 90 per cento» (Emiliano escluso). «Ma questo non può significare che ci mettiamo su un Aventino politico e istituzionale», ha detto papale papale Andrea Orlando. E l'altro capo della minoranza interna, Gianni Cuperlo, è andato oltre, proponendo esplicitamente che il Pd non si tiri indietro per un «governo di scopo» che faccia alcune cose, la legge elettorale tra queste, per poi tornare al voto, ma senza fretta, «non ci sono rivincite veloci», chiosa il Guardasigilli. «Un governo al Paese bisognerà darlo comunque», aggiunge Cuperlo.
LO SBLOCCO
Viene dalle minoranze lo sblocco interno perché il Pd svolga una qualche azione per la formazione di un governo prossimo venturo, «nella prima Repubblica c'erano partiti del 3 per cento che stavano al governo e in maggioranza», ha ricordato Orlando. L'indicazione non viene da chi ha finora retto le sorti del partito, renziani e limitrofi, ma da quanti sono stati all'opposizione interna o comunque mai nella cerchia renziana. La partita interna per superare definitivamente il renzismo viene giocata sul piano esterno, istituzionale e di governo. Un po' come ai tempi di Achille Occhetto, quando l'allora leader del Pds dopo la sconfitta del 94 a opera di Berlusconi fu scavalcato dagli oppositori interni che intavolarono un dialogo sulla testa del segretario sconfitto, con Giorgio Napolitano che platealmente in aula ricevette la stretta di mano di Berlusconi premier, seguito dall'invito al Cavaliere e a Letta di presenziare al congresso del partito a luglio.
Lo schema adesso è di più difficile realizzazione a causa della scarsa affidabilità grillina, o del loro essere avulsi dal classico contesto politico, il che è lo stesso, ma ne ripercorre alcuni tratti. E quello più acuminato è riassumibile più o meno così: dobbiamo fermare Renzi e la sua voglia di rivincita a breve, «così ci porta a sbattere definitivamente», dicono preoccupati dalle parti delle minoranze e non solo, «dobbiamo prendere tempo e non rinchiuderci in uno sterile ruolo di opposizione fine a se stessa». Come? Capito che l'ipotesi di sostenere dall'esterno, e gratis, un governo Di Maio avrebbe messo i proponenti sul banco degli imputati, la strada scelta è quell'altra, molto più giocabile tatticamente e foriera di possibili sviluppi: la strada di un «governo di tutti», non a guida Di Maio né Salvini, ma sostenuto e dalle forze vincitrici delle elezioni e da quelle perdenti, nessuno fa la stampella a nessuno, tutti sono stampella di tutti. Archiviato anche, in questo contesto, il cosiddetto «governo dei vincitori», formato da M5S e Lega, subito ribattezzato da D'Alema ancora in vena di sarcasmo «governo Tecoppa», quello che soleva dire «stai fermo che ti infilzo».
Un Pd in grado di giocare comunque una partita istituzionale, potrebbe anche raccogliere qualche risultato, tipo dividere il centrodestra, come è già avvenuto sulla presidenza delle Camere: a Salvini che sembrava avviato al patto a due con il M5S con reciproca intesa su una Camera a me e una al grillino, ha dato sulla voce Berlusconi che vorrebbe una presidenza di garanzia anche per il Pd. Quel che si intravede è che la via della rivincita veloce appare già preclusa ai suoi albori.

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