ROMA Dimenticatevi i toni, le facce, gli atti da opposizione. Il M5S, Luigi Di Maio, si abbottona l'abito istituzionale che ha tenuto nell'armadio in naftalina per cinque lunghi anni. Faranno valere il loro 32%, e il 36% di seggi conquistati alla Camera (227), con convinzione e parola chiave «responsabilità». Primo obiettivo a breve termine: strappare la presidenza di Montecitorio. Secondo a lungo termine: impostare una politica economica riformista, correggendo con ambizione, dove si può e quindi senza fare deficit, le eredità del Pd di governo.
I RUOLI
Da opposizione, e dal 25% nella scorsa legislatura ottennero cinque ruoli: la vicepresidenza della Camera (quel Luigi Di Maio oggi aspirante premier), due segretari, tra cui Riccardo Fraccaro che ora corre per la poltrona che è stata di Laura Boldrini, un questore e un segretario d'aula al Senato. Breve inciso: all'epoca il M5S non partecipò nemmeno alle consultazioni considerate una odiosa pratica spartitoria. Ora i pentastellati sono cambiati. Niente più streaming ma video con resoconti ex post.
Alla cabina di regia ci sono i capigruppo in pectore Danilo Toninelli e Giulia Grillo. A fine giornata, ieri, erano particolarmente soddisfatti per due motivi: «Pd e Lega hanno aperto sul nostro metodo», diranno e poi perché hanno visto comparire crepe nel centrodestra. Ettor Rosato del Pd chiarisce in seguito: «Il Pd non chiede niente ma se i profili sono adeguati non c'è preclusione a votare nomi proposti da chi ha vinto le elezioni se sono all'altezza del ruolo». Ma l'apertura sul metodo è una prima vittoria per il M5S. «A differenza di quanto avvenuto negli ultimi vent'anni, in cui le maggioranze parlamentari eleggevano quali Presidenti delle Camere esponenti delle forze che nelle loro intenzioni successivamente avrebbero fatto parte del governo, il nostro obiettivo è la garanzia dell'istituzione parlamentare, cosa che per noi si attua separando l'elezione dei Presidenti dalla formazione del governo», ha sottolineato Danilo Toninelli che ha in programma altri incontri la prossima settimana. Il primo colloquio c'è stato con Giancarlo Giorgetti della Lega, poi Pietro Grasso per Leu, Maurizio Martina e Lorenzo Guerini per il Pd e Renato Brunetta per FI. Al telefono è stata raggiunta la leader di Fdi Giorgia Meloni. E qui il M5S ha fatto notare con un sorriso largo che il centrodestra si è presentato in ordine sparso e non con un unico interlocutore: «Sono finite le scorte di mastice».
Potere del 32%, si dirà. Ma quel terzo e passa di voti ha cambiato l'approccio politico. Si studia di più, si baccaglia meno. E i segnali arriveranno in un suo Def che il M5S sta scrivendo. «È un tema per noi ultra delicato», dice la vicecapogruppo Laura Castelli che sta lavorando al dossier da settimane con due obiettivi: bloccare gli aumenti Iva e pentastellizzare la cornice disegnata da Padoan. Che non vuol dire iniettare il reddito di cittadinanza nel Def ma fargli fare capolino sì e cesellarlo all'interno del quadro esistente pure. «Ce lo hanno copiato in malo modo», ha ammesso Luigi Di Maio l'altro giorno parlando del Rei. Cosa succederà? A quanto si apprende un segnale ci sarà. «Ci farà comodo mantenere I fondi già stanziati per il Rei», confidano i Cinque Stelle che starebbero eliminando tutte le clausole assistenzialiste nel progetto originario del Reddito di cittadinanza. Perché? Per dare un altro, nuovo segnale iper distensivo ai dem.
Centrodestra diviso sui nomi regge l'asse tra Lega e Di Maio
ROMA Fratelli coltelli, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Costretti a stare insieme - il primo per potersi definire leader del centrodestra, il secondo per un'oggettiva debolezza - ma distanti sulle strade da seguire. Ufficialmente i due sfoggiano sintonia e continuano ad incontrarsi, ma poi ogni partito va per conto suo agli incontri con Pd e M5S sulle presidenze delle Camere e si informa anche su cosa hanno detto gli altri. Ciò che ieri è apparso scontato è che il leader del Carroccio, se vuole presentarsi al Quirinale come possibile candidato premier del 37%, ha assolutamente bisogno di tenere unita la coalizione. E ieri Salvini, evocando la necessità di una nuova legge elettorale con premio di coalizione, ha in sostanza ribadito la necessità di tenere unito il centrodestra.
I PRIGIONIERI
Il Cavaliere però continua fidarsi poco dell'alleato che procede con il meccanismo della ruspa al punto da preoccupare anche coloro che dentro FI sono da tempo accusati di eccessiva confidenza con il leader della Lega. «Non sono l'uomo di Salvini nel partito», ha tenuto ieri a precisare a La7 il governatore della Liguria Giovanni Toti. Il timore che Salvini voglia prendersi il centrodestra senza fare prigionieri, allarma anche coloro che da tempo sostengono l'esigenza di un partito unico. Preoccupazioni alimentate da come il leader del Carroccio sta procedendo nella trattativa per le presidenze delle Camere che, malgrado le smentite di tutti, rischia di intrecciarsi con quella del possibile governo. Unico a non sostenere la tesi delle partite separate è Berlusconi che oltre a ritenere una «sciagura per il Paese un voto anticipato», è convinto che Salvini debba lavorare per stringere con i dem un accordo che porti Giancarlo Giorgetti alla poltrona più alta di Montecitorio e Paolo Romani a quella di palazzo Madama.
L'accoppiata, Romani-Giorgetti, taglierebbe fuori i grillini e sbarrerebbe la strada anche a possibili intese sovraniste e populiste tra Lega e 5S. Salvini però non ne vuol sapere del Pd. Lo ha ripetuto anche ieri, provocando la reazione di Matteo Richetti («Salvini se la canta e se la suona»), e su questo trova sponde in Giorgia Meloni che però dice no anche a patti con i grillini. «Chi lo dice che i grillini debbano avere una delle due presidenze. Anche An a suo tempo fu tagliata fuori e non fu una tragedia», sosteneva ieri in Transatlantico Ignazio La Russa (FdI). Tesi interessante, ma per qualcuno difficile da praticare perché darebbe ai grillini un'altra scusa per tirarsi fuori da ogni ipotesi di governo. Ieri la coppia dei capigruppo 5S, Toninelli-Grillo, hanno spiegato la richiesta della presidenza di Montecitorio sostenendo che alla Camera sono il primo gruppo, con 227 deputati, «e poichè nascerà un governo senza di noi, è giusto che l'opposizione abbia almeno un presidente di garanzia».
LA FINESTRA
A più di una settimana dal voto dei presidenti delle Camere i tatticismi si sprecano e le manovre dei partiti allarmano i grillini che temono di essere tagliati fuori da meccanismi politici che investono anche gli equilibri degli uffici di presidenza che potrebbero rappresentare la merce di scambio con il Pd. I dem sono alla finestra, consapevoli di essere divenuti più importanti sia per le spaccatura nel centrodestra, sia per l'incrinato asse 5S-Lega. Alla linea di rottura con i grillini del Cavaliere, Salvini ieri ha risposto prima rivendicando la Camera per Giorgetti, in modo da spingere FI a votare un 5S, e poi cambiando gioco proponendo per il Senato Giulia Bongiorno in alternativa a quella di Roberto Calderoli, senatore leghista di lungo corso che aspira alla poltrona ma che incontra molte resistenze per via di sue estemporanee passate iniziative. Avvocato, donna, senatrice ma già con esperienza parlamentare per essere stata deputata con An, la Bongiorno potrebbe rappresentare un buon punto di caduta, sempre che FI sia d'accordo, rinunci a Paolo Romani, e voti alla Camera un esponente del M5S.