ROMA AL fondatore del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, è convenuto allentare i legami con la politica tornando sui palcoscenici. Nel 2017 è tornato ad essere il leader politico (con l'eccezione di Silvio Berlusconi che è incandidabile e dunque non è tenuto a rendere pubblica la sua dichiarazione dei redditi) con il 730 più alto. L'anno sorso Grillo ha superato quota 420mila euro, collocandosi oltre i 355mila incassati due anni fa ma assai più in alto dei circa 72mila della dichiarazione 2016. Gli si avvicina il front men di Liberi e Uguali, Pietro Grasso, con 321.000 euro. Gli altri viaggiano su quota 100.000 o giù di lì. Con Pier Luigi Bersani a quota 148.000, e Matteo Renzi (l'anno scorso non parlamentare) a 107.000 circa 10.000 in più di Luigi Di Maio che ne ha dichiarato 98.000.
L'ESECUTIVO
Nella squadra di governo la ministra dell'Istruzione, Valeria Fedeli, con 182.016 si conferma la più ricca mentre la collega alla Sanità Beatrice Lorenzin con 91.888 si ritrova in coda, appena sotto i circa 92.000 denunciati dal ministro dell'Interno, Marco Minniti.
Nella speciale classifica dei parlamentari più ricchi, spiccano il senatore a vita e architetto Renzo Piano che sfiora i tre milioni (gran parte dei quali denunciati al fisco francese) e il re delle cliniche nel Centro Italia e deputato di Forza Italia Antonio Angelucci che ha dichiarato nel 2017 un reddito di 2.726.959, in calo rispetto alle entrate dell'anno precedente, quando furono 3.954.097 euro.
A sei zeri anche il reddito dell'ex ministro dell'Economia dei governi Berlusconi, Giulio Tremonti: nel 2017 ha dichiarato 2.111.533 euro, contro gli oltre 2 milioni 500 mila euro del 2016, così come quello dell'avvocato Niccolò Ghedini, senatore di Forza Italia, che ha registrato nel 2017 un reddito imponibile di 1 milione e 623.533 euro, in leggero calo rispetto a un milione e 645.606 euro del 2016.
Tra i parlamentari c'è anche chi dimezza nell'ultimo anno le entrate: l'ex premier e senatore a vita Mario Monti, il cui reddito è sceso da 862.333 euro a 421.611 euro mentre la presidente della Camera Laura Boldrini si attesta a 137.337 euro.
I REDDITI M5S
Nel M5S tra quelli che registrano redditi più alti della media spunta l'avvocato Alfonso Bonafede, indicato dal movimento come ministro della Giustizia, che dichiara circa 200mila euro; dopo di lui si piazza Alessandro Di Battista con circa 113 mila euro, mentre Paola Taverna ne dichiara 103.456; seguono Laura Bottici con 99.699 euro, Nicola Morra che dichiara 99.465 e Carla Ruocco che si piazza a quota 94.239.
In casa Pd, Matteo Renzi nel 2017 dichiara un reddito imponibile pari a 107.100 euro, in leggero aumento rispetto all'anno precedente (2016) quando il reddito dichiarato era pari a 103.283 euro. Sotto i 96.000 il reddito di Maria Elena Boschi mentre l'ex compagno di partito Pier Luigi Bersani dichiara un imponibile di 148.096 euro, restando quasi inalterato rispetto alla dichiarazione 2016.
Tornando all'esecutivo, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni si piazza a metà della classifica con 107.401 euro, mentre nella fascia dei redditi più alti subito dopo la ministra Fedeli si trova il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda che ha dichiarato 166.264 e che a differenza dell'anno scorso afferma di avere fondi comuni di investimento cointestati con il coniuge. Terza classificata nell'esecutivo la ministra dei Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro che dichiara 151.672, seguita dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini con 145.044 euro e dal titolare dell'Economia Pier Carlo Padoan che ha un reddito imponibile pari a 122.457.
Il rischio di una legislatura troppo breve 500 neoeletti tentati di tenersi i contributi
ROMA Scommettere su una (buona) pensione a 65 anni o incassare subito i (lauti) contributi rinunciando ad ogni diritto previdenziale? E' il dilemma che giovedì 23 marzo, primo giorno di lavoro, affliggerà i 500 neoeletti della diciottesima legislatura.
Ma non li avevano aboliti i vitalizi? Si, è vero, dal primo gennaio 2012 (giorno di entrata in vigore della riforma Fornero) anche per i neodeputati e i neosenatori vige un sobrio sistema di calcolo contributivo per la loro pensione. E tuttavia la dura vita del (neo)parlamentare continua ad iniziare da un dilemma pensionistico.
LA FACOLTÀ
Perché? Il fatto è che, anche se lo sanno in pochi, per gli onorevoli (regionali compresi) la pensione è facoltativa. Dal 2012 la regola previdenziale per gli eletti in Italia recita così: se per il lavoro che fai presso il Parlamento vuoi maturare una pensione (a 65 anni) versi i contributi alle casse previdenziali della Camera, del Senato o delle Regioni ma puoi anche rifiutare di mettere da parte i soldini per la pensione e in questo caso i contributi, sia tuoi che quelli del datore di lavoro, Camera, Senato o Regione che sia, te li metti in tasca subito e fai pure cadera un macigno sulle polemiche legate ai vitalizi.
Molti consigli regionali hanno già attraversato il Rubicone optando per l'eliminazione alla radice di ogni forma di previdenza. E' il caso ad esempio del Consiglio del Piemonte dove la gran parte dei consiglieri oggi in carica già da quattro anni non paga i contributi.
Ma che cosa faranno giovedì i neoparlamentari? Difficile dirlo. Perché nella stragrande maggioranza non sanno nulla dei meccanismi previdenziali legati alla loro professione. E tuttavia è possibile che molti decidano di non versare i contributi facendosi guidare dal fiuto politico: infatti chi considera probabile che si vada a rivotare prima del 2023, scadenza naturale della legislatura, fa bene a non versare un euro per la pensione.
La ragione è semplice: la legge del 2012 prevede che per avere diritto alla pensione da onorevoli bisogna versare contributi per almeno 4 anni sei mesi e un giorno. E se le Camere vengono sciolte prima? Si perde tutto: diritto alla pensione e contributi versati.
La ragione di questa tagliola sta nel fatto che anche i lavoratori normali non maturano la pensione con meno di 20 anni di contributi. Dunque chi ha scritto la riforma dei vitalizi parlamentari nel 2012 , gente che di pensione ne capiva, per senso di equità ha voluto fissare anche per gli onorevoli un periodo contributivo minimo.
Per i deputati le cifre in gioco sono alte. Un onorevole versa dal suo stipendio circa 800 euro al mese alle Casse previdenziali di Camera e Senato. A questi soldi si aggiungono più o meno altri 2.000 euro al mese versati come contributi dai datori di lavoro, ovvero Camera e Senato. Questo gruzzolo contributivo di circa 33.000 euro l'anno (150.000 dopo 4 anni e mezzo) assicura una pensione contributiva di 1.000 euro al mese a 65 anni. Ovvio: se la legislatura durasse almeno fino all'autunno 2022. Ma in quanti ci credono?