ROMA Senza accordi politici, ecco lo spettro delle elezioni anticipate: Matteo Salvini lo dice molto chiaramente ai 5Stelle. E una proposta di legge per introdurre il premio di maggioranza, in grado di produrre un governo certo, è già stata depositata alla Camera da Fratelli d'Italia, con la richiesta di esaminarla in Commissione speciale. Una mossa pesante, nel giorno in cui si aprono le consultazioni al Quirinale.
CAMERE
Ieri Sergio Mattarella avviato i suoi incontri con le forze parlamentari. Prima ha incontrato la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, poi il suo omologo alla Camera Roberto Fico: lei nell'auto di servizio con la bandierina di Palazzo Madama, lui a piedi da Montecitorio, scalinata laterale compresa. A mezzogiorno è arrivato il presidente emerito Giorgio Napolitano, seguito nel pomeriggio dalle delegazioni delle Autonomie, dei gruppi misti e da Fratelli d'Italia.
Ed è proprio la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni a dire esplicitamente al Capo dello Stato che si potrebbe tornare al voto nella primavera 2019. E per avvalorare questa ipotesi, annuncia una proposta di legge che punta a introdurre un premio di maggioranza con soglie al 37 e al 40%. FdI ha già chiesto con una lettera al presidente della Camera Roberto Fico di metterla in discussione già nella commissione per il Def. Tempo due settimane e, se ci fosse l'intesa con M5S, il Rosatellum verrebbe corretto. «È meglio non andare a votare», le fa eco Salvini che oggi a sua volta è atteso al Colle, «ma se tra due mesi siamo ancora qua a dirci le stesse cose e tutti sono sulle stesse posizioni, basta», chiarisce sostenendo che per arrivare a formare un governo «qualcuno alla fine dovrà cedere, perché se tutti rimangono sulle loro posizioni si va a votare o a giugno o a ottobre, tutti devono cedere, non solo M5s, anche Pd e Forza Italia».
Giancarlo Giorgetti aveva parlato di ottobre come possibile appuntamento elettorale. Salvini conferma e addirittura anticipa a giugno. «C'è poco da esplorare», dice poi quando a Milano gli chiedono se ambisca a un incarico esplorativo. «Oggi è inutile perché non ci sono i numeri», spiega. Questi sono i primi segnali di frustrazione che increspano lo stallo apparentemente placido del nuovo Parlamento.
Ecco perché Mattarella chiede con insistenza quali alleanze siano possibili. LeU con Pietro Grasso ha aperto ai Cinquestelle, chiudendo al centrodestra. «Le intese si fanno e si trovano in Parlamento», ha detto invece il presidente del gruppo misto della Camera dei Deputati, Federico Fornaro uscendo dal Quirinale. Nessuno vuole tornare al voto ma l'impasse c'è nonostante il dialogo tra M5s e Lega sia in fase inoltrata e soprattutto abbiano i numeri per formare una maggioranza.
Mattarella già ieri ha ricordato che il maggioritario non c'è più e che fino al 1994 c'era un proporzionale simile all'odierno. E che i governi si facevano anche allora. Dunque i veti che sbarrano la strada alle intese sono dannosi. E lo dirà anche ai big: Berlusconi, Salvini, Martina e Di Maio che oggi saliranno pure al Colle. Il capo politico del M5S Luigi Di Maio ieri ha smorzato i toni e non ha rivendicato la premiership.
SOLUZIONE
Ha usato piuttosto una formula che fa capire quanto sia disponibile a più miti consigli. «Nessuna forza politica ha la maggioranza per poter governare da sola. I numeri per farlo non ci sono ed è chiaro che bisogna trovare una soluzione per uscire dal vicolo cieco in cui ci ha messo questa pessima legge elettorale», scrive sul blog del M5S. Non vuole cambiare la legge elettorale. «Non ci interessa minimamente», ripete il suo braccio destro. Vuole però incontrare e quindi potersi alleare con Pd e Lega, definite «forze politiche alternative, anche distanti», sulla base di «un contratto di governo come quello sottoscritto in Germania dal 1961». Perchè dovrebbero? Ecco la risposta: «La Lega deve decidere da che parte stare: se contribuire al cambiamento se invece rimanere ancorata al passato e a Silvio Berlusconi».
La via stretta di Salvini per tenere dentro FI
ROMA La prima a dare ragione a Sergio Mattarella è stata ieri Giorgia Meloni raccontando al presidente della Repubblica - nel corso dell'incontro avuto al Quirinale insieme a Rampelli e Bertacco - di aver depositato un progetto di legge per inserire il premio di maggioranza nella legge elettorale. Un buon proposito per il futuro - visto lo stallo attuale - ma che di fatto conferma ciò che dal Quirinale filtra da giorni. Ovvero che non c'è il maggioritario e che i partiti devono prima o poi prenderne consapevolezza cominciando a muoversi nell'attuale sistema proporzionale che prevede alleanze, passi indietro, mediazioni. Un po' come accadeva prima del 94 quando molti governi, che Mattarella ha visto nascere, si costruivano con pazienza ma senza veti e ultimatum.
IL DIRITTO
Esattamente il contrario di ciò che è avvenuto sinora e che rischia di trovare conferme al termine del primo giro di consultazioni. «Come pensate di procedere?». E' la domanda che Mattarella rivolge ai suoi ospiti quando nello studio alla Vetrata parlano di governo senza offrire una maggioranza dai numeri certi. Una domanda che oggi si sentiranno proporre Di Maio come Salvini e Berlusconi. Il primo sosterrà la tesi che «il candidato premier più votato ha il diritto-dovere di andare a palazzo Chigi». Ma con il pur ragguardevole 32% non si costruisce una maggioranza. Soprattutto se, prima di Di Maio, sarà il Cavaliere a sostenere che «il centrodestra è unito e d'accordo nel non voler nemmeno parlare con colui che non riconosce chi rappresenta 5 milioni di italiani» e che «ha programmi opposti ai nostri». Un macigno che ostacola il rapporto tra Salvini e Di Maio, con quest'ultimo costretto a prendere atto che spaccare il centrodestra risulta una mission impossible. Salvini almeno per ora non intende proporsi come l leader del 17% e non del 37% e rassicura il Cavaliere mandando Giorgetti in tv a sostenere che se si continua con i veti si torna al voto.
Malgrado le tensioni la virata a destra del M5S è evidente. L'unico interlocutore di Di Maio resta il leader del Carroccio e del centrodestra. Una conferma si ha da come procede la spartizione delle cariche in Parlamento e il dialogo avviato tra i due sul pacchetto di nomine pubbliche che presto verranno a scadenza. Salvini - come dirà anche oggi al Colle - pensa di sfruttare l'occasione per includere FI nella partita ponendosi come garante di tutta l'alleanza. Di Maio però non molla. Tiene fermo il suo nome per palazzo Chigi e resiste all'idea di dover includere nella maggioranza l'odiato Cavaliere. Anche a costo di dover di fatto ritirare il M5S dalla trattativa per il governo. Sfilarsi, come potrebbe alla fine decidere Di Maio, ed evocare un ritorno a breve alle urne, come hanno fatto Salvini e Giorgetti, può servire come elemento dialettico ma rischia di scontrarsi con il presidente della Repubblica preoccupato non di un possibile ritorno al voto, quanto della sua concreta inutilità. Il rischio di uno stallo totale è forte, ma mentre i partiti danzano ponendo condizioni e veti, il tempo scorre i problemi del Paese incalzano, mentre a Bruxelles - basta vedere come Eurostat ha ricalcolato il nostro rapporto deficit-pil - si preparano a presentarci il conto e a ricordarci la grande mole di debito pubblico.
LA FINESTRA
Al Quirinale sfilerà oggi per prima la delegazione del Pd, seguita da quella di FI con Berlusconi, dalla Lega con Salvini e dalla pattuglia pentastellata guidata da Di Maio. I dem confermeranno con Delrio, Orfini e Martina la volontà di restare alla finestra, salvo presentare una serie di priorità sulle quali «siamo disponibili a discutere». Berlusconi sosterrà la tesi del centrodestra compatto nel sostegno della candidatura di Salvini per palazzo Chigi. A quel punto - con il via libera del Cavaliere e della Meloni - sarà difficile per il leader leghista sottrarsi alla domanda: «Come pensa di procedere?». A Mattarella non servirà infatti il pallottoliere per rendersi conto che il centrodestra - con Salvini o Giorgetti, potrebbe avere sulla carta le chance migliori per formare un governo qualora dovesse saltare l'intesa M5S-Lega. Ieri sera Salvini, fiutata l'aria, ha subito messo le mani avanti definendo «inutile» l'eventuale incarico esplorativo: «E che faccio, posso solo prendere atto che non ci sono i numeri». Però prima del 94 - con un sistema proporzionale come l'attuale - nessuno avrebbe rifiutato un mandato del presidente della Repubblica, seppur ipotetico ed esplorativo.