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Data: 25/04/2018
Testata giornalistica: Il Messaggero
Martina apre a M5S ma Renzi non ci sta Di Maio: così o si vota. Matteo controlla Direzione e gruppi: «E per l'intesa serve il 90% degli eletti...»

ROMA L'ora di Roberto Fico è scoccata ieri. Il Presidente della Camera ha inaugurato il suo mandato esplorativo portando a casa già due tiepide novità: una chiusura in pompa magna del forno M5S e Lega, un Pd che si sta scongelando ed è curioso di andare a toccare con mano le proposte pentastellate, al netto di un Matteo Renzi che è per non sedersi nemmeno.
CONSEGNA
La consegna del Presidente Sergio Mattarella è stata molto precisa: cercare una possibile maggioranza tra M5S e Pd. Tempo: 48 ore. I primi a entrare nell'ufficio del Presidente Fico ieri, nel primo pomeriggio, sono stati i dem. Si sono presentati con una delegazione composita guidata dal segretario reggente del Pd Maurizio Martina che in mattinata ha espletato un suo personale giro di consultazioni sentendo i segretari regionali, i principali sindaci e presidenti di regione, oltre che le personalità del Pd. Ha visto anche il coordinatore della segreteria Lorenzo Guerini. A Montecitorio con Martina sono saliti anche i capigruppo Graziano Delrio e Andrea Marcucci più il presidente del partito Matteo Orfini. Non sono stati convocati invece le altre forze del centrosinistra che erano in coalizione con il Pd. E quindi Emma Bonino, Riccardo Nencini e Beatrice Lorenzin che rimangono fuori dal perimetro esplorativo di Fico.
Per i dem, la condizione preliminare era che il capo politico M5S Luigi Di Maio chiudesse con la Lega di Matteo Salvini. E ieri questa chiusura è stata ufficializzata. Martina che fa parte di quel pezzo di partito che spinge per il dialogo uscendo dalle consultazioni ha detto di non voler nascondere le diversità e i punti di partenza differenti con i pentastellati.
TRE TEMI
E infatti ha ricordato che di questo si dovrà parlare nella direzione nazionale che potrebbe svolgersi mercoledì prossimo 2 maggio. Poi ha lanciato tre macro temi su cui cominciare a dialogare, tre direttrici che riassumano l'essenza dei 100 punti proposti al Paese in campagna elettorale. Punto primo e imprescindibile: l'Europa. «L'Italia è chiamata a scegliere se contribuire a un stagione europeista - ha spiegato - o se ripiegare sul sovranismo. Noi siamo per un lavoro deciso perché Italia contribuisca, assieme alla Francia e alla Germania, a una nuova agenda europea, mentre altre forze hanno una idea opposta». Il secondo punto riguarda «il rinnovamento della democrazia, al di là della deriva plebiscitaria» e il terzo le politiche del lavoro e di contrasto alla povertà e alle disuguaglianze entro gli equilibri di finanza pubblica.
«Mi pare che ci sia un cambio netto di fase nel modo in cui si discute», festeggia il segretario nazionale Nicola Fratoianni di Liberi e Uguali. Nel corso dell'incontro Andrea Marcucci e Matteo Orfini hanno sostenuto la necessità di tenere una linea più cauta e ferma. E infatti Matteo Renzi, lo si capisce dalle dichiarazioni di fuoco di Michele Anzaldi e Alessia Morani, rimane freddo. Perché al di là dei punti programmatici «serve un riconoscimento del lavoro del governo Renzi», spiegano i renziani che in Senato sono 38 su 52, mentre in direzione 117 su 209. Non pochi.
Luigi Di Maio ha incontrato Roberto Fico accompagnato dai capigruppo Danilo Toninelli e Giulia Grillo tre ore dopo Martina. E ha «chiuso ufficialmente qualsiasi discorso con la Lega» che si è condannata «all'irrilevanza». «È chiaro che l'ipotesi di Governo del centrodestra è fallita», dice Di Maio che ammette pure: «Tra noi e il Pd ci sono profonde differenze e una storia molto difficile alle spalle». Però prende tempo. Non vuole firmare il contratto subito coi dem e invita ad aprire un tavolo per capire «se ci siano i presupposti per metterlo in piedi». E avverte: «Non sviliremo i nostri valori e le nostre più grandi battaglie: costi della politica, ambiente, reddito di cittadinanza, lotta al business dell'immigrazione, pensioni e aiuti alle imprese, lotta alla corruzione». E alla fine agita lo spettro delle urne: «O andiamo al governo o al voto».

Matteo controlla Direzione e gruppi: «E per l'intesa serve il 90% degli eletti...»

ROMA Alla riunione con il presidente esploratore Fico sono arrivati alla spicciolata, divisi finanche sul breve percorso dal Nazareno a Montecitorio. Un motivo c'era: alla pre-riunione nella sede del Pd erano volati gli stracci. Quando Maurizio Martina ha buttato lì che «la chiusura da parte di Di Maio del forno leghista è una novità da cogliere», è saltato su Matteo Orfini, pronto, con il suo niet che è anche quello dell'altro Matteo, Renzi, il segretario dimissionario che però non rinuncia a dire la sua, anzi.
LA LITE
«Queste condizioni non ci sono e non le vedo, la linea stabilita in direzione è che non è possibile alcuna intesa con i cinquestelle, se qui ora qualcuno pensa addirittura di poterci fare un governo insieme, non ci siamo proprio, per ribaltare quella linea ci vuole un'altra riunione di direzione», scandisce Orfini. A dar manforte al presidente dem si è ritrovato Andrea Marcucci, il renzianissimo capogruppo al Senato, mentre gli altri due presenti, Graziano Delrio e Lorenzo Guerini, hanno preferito mantenere una posizione più mediana, non defilata certo, ma aperta alle esigenze dei trattativisti senza per questo perorare cambi di linea. Un vedere le carte, in sostanza, ma senza che questo significhi prefigurare alcunché, o forse, chissà, un prepararsi alla seconda fase mattarelliana, quella che dovrebbe portare, numeri e predisposizioni permettendo, al famoso governo del presidente, o di garanzia, o di tutti tranne qualcuno. «Vedo scarse possibilità di riuscita, ma non si può evitare il confronto», la tesi di Delrio.
Tutto rinviato alla Direzione, dunque, che presumibilmente Orfini convocherà per mercoledì, tra una settimana. Raccontano di una certa irritazione di Renzi, non tanto per Martina che ormai, a detta degli uomini dell'ex leader, «crede di farsi eleggere segretario dalle minoranze, auguri», quanto per l'atteggiamento cerchiobottista, non proprio allineato del duo Guerini-Delrio, che non era, o non sarebbe stato nei patti. Sì, perché l'atteggiamento da tenere, concordato in precedenza, era stato un altro: no a ogni trattativa. Anche perché, al quartier generale renziano erano giunti, girati da chi di dovere, alcuni sms di Martina inviati a segretari regionali e parlamentari, nei quali si chiedeva di dire la propria, di dare un contributo, di far conoscere il proprio orientamento rispetto al tavolo con il M5S, «ma qua nessuno è fesso, quell'sms si capiva subito dove mirava, e io ho avuto premura di farlo conoscere», racconta uno degli informatori che forse Martina non doveva contattare.
LA CONTA
Come si apprestano le truppe per l'ennesima conta in direzione convocata per l'ennesima resa dei conti? I renziani sono sicuri di avere ancora la golden share, sia nel partito che nei gruppi parlamentari. Luca Lotti, specializzato nello schieramento di truppe, ha fatto e rifatto i conti: in direzione i renziani sono sicuri di contare tuttora su 125 esponenti su 209, dal conto sono stati defalcati i 20 di Franceschini, i 9 di Martina, i 2 di Veltroni e, «per precauzione», i 3 di Delrio. Non sono stati defalcati, invece, gli esponenti riconducibili a Paolo Gentiloni, che anzi i bene informati danno in reciproco avvicinamento con Renzi anche grazie al lavoro di pontieri, amici di entrambi. Stessa situazione tra i gruppi parlamentari, sui quali poggerà, se poggerà, l'onere di un appoggio governativo. Alla Camera ai renziani vengono tuttora atttribuiti 70 deputati su 112, mentre al Senato si parla di 32-36 su 55. Ma l'aspetto politico, prima ancora che numerico, lo ha spiegato Renzi stesso l'altro giorno, quando ha detto a chi volesse intendere che «per fare qualsiasi governo con il M5S occorre il 90% dei gruppi dem», e l'ex leader ovviamente è sicuro di controllare molto più del 10 per cento. Precedenti calcoli al pallottoliere al Senato, dove le maggioranze sono sempre più ballerine, facevano raggiungere quota 170 a una maggioranza formata da tutto il M5S, tutto il Pd, tutta Leu più autonomisti, in sostanza bastano appena 10 (dieci) dissidenti e la maggioranza non c'è più, svaporata, pluf. Il correntone dem cresce, ma sempre minoranza rimane, come è nella tradizione di tutti i correntoni a dispetto del nome roboante.

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