Marco Bentivogli, segretario dei metalmeccanici della Cisl: di rinnovamento del sindacato si parla da anni, ma i sintomi della crisi restano gli stessi. Invecchiamento degli iscritti, disaffezione, affanno nell'affrontare i nuovi scenari del lavoro. C'è un problema di classe dirigente?
«I problemi comuni a tutte le grandi organizzazioni di rappresentanza, dai partiti ai sindacati, non si esorcizzano negandoli. Riconoscerli aiuta sempre a capire come muoversi. Oggi il lavoro è più frammentato, con forme contrattuali spesso fragili e ciò impone modelli organizzativi e strategie contrattuali sempre nuove. I gruppi dirigenti si devono forgiare in anni di vertenze collettive e di contrattazione ma oggi più che mai devono saper guardare oltre quello che sono state le forme e le regole del lavoro del 900. Bisogna restituire generatività al sindacato, aprendolo, superando conformismi interni per recuperare il fascino che li vedeva nei periodi migliori, luoghi plurali, liberi e capaci di attrazione. Il bla bla burocratico del mestierante, non solo non scalda il cuore a nessuno, ma allontana le persone più interessanti. In questo quadro, in Fim e in Cisl il cantiere del cambiamento è aperto».
Perché i giovani, che sono i più sofferenti nell'attuale mercato del lavoro, fanno fatica a sentirsi rappresentati?
«Ci sono sicuramente responsabilità nostre, di non essere cambiati abbastanza. Ma i messaggi che ricevono le nuove generazioni li spingono a stare alla larga di qualsiasi organizzazione di rappresentanza. È evidente però che se parliamo anche ai ventenni della legge Fornero e articolo 18, come fa la Cgil, non facciamo un passo concreto nella direzione di ciò che li riguarda nel cambiamento del lavoro».
Resta anche un tema di trasparenza: compensi, regimi pensionistici, intrecci con attività economiche. Ovviamente ogni sindacato può rispondere per sé, ma pensa che l'azione di rinnovamento sia stata portata avanti con sufficiente energia?
«Le risorse che utilizziamo le mettono a disposizione i lavoratori, spesso con sacrifici e questo impone una corretta gestione. Noi abbiamo on line i modelli 730 di tutti i dirigenti a tempo pieno (non le buste paga che possono nascondere casi di più datori di lavoro), i bilanci, raccogliamo gli estratti contributivi pensionistici dei dirigenti sopra i 50 anni. Vorrei vedere quanti partiti fanno altrettanto, come libera scelta e non perché costretti da leggi. Una cosa è certa, la reputazione di un soggetto di rappresentanza è uno dei patrimoni più preziosi, che si costruisce in anni e si sgretola in pochi secondi, per questo abbiamo regole ferree. Queste regole dovrebbero valere per tutte le organizzazioni sindacali. Sto parlando anche di incompatibilità con incarichi politici e di rotazione, per evitare la pretesa di eternità di alcune figure».
Come immaginare per il futuro il rapporto con la politica, che ha tentato di inserirsi nella più generale crisi dei corpi intermedi?
«Da un lato, i ruoli devono essere distinti. Dall'altro, bisogna evitare la sindrome di accerchiamento e la retorica degli attacchi al sindacato. Un sindacato, capace di cambiare, di essere sempre adeguato ai tempi, non ha nulla da temere. Mi preoccupa di più la cultura politica (trasversale) che sottende i vari tentativi di disintermediazione. Dietro vi è un analfabetismo politico che impedisce di capire che i sindacati, certo non tutti burocratici o reazionari, sono invece un luogo decisivo della democrazia sostanziale. Solo noi, in questi anni, abbiamo dato forma e contenuto alla rabbia e alla disperazione, vivendo quotidianamente luoghi di cui la politica conosceva solo gli stereotipi da talk show. Chi non capisce questi processi ha una visione troppo corta per guidare qualsiasi Paese. Vorrei vedere qualsiasi politico parlare al mio posto alla Portineria D dell'Ilva, il 27 luglio 2012, il giorno dopo il sequestro, davanti a 11 mila lavoratori arrabbiati con tutti. Capirebbero molte cose».