ROMA La circumnavigazione di Palazzo Chigi in ottanta giorni. E la parola fine al romanzo gialloverde sembra vicina. Chiuso l'accordo sulla premiership, si apre a cascata quello sulla squadra di governo. Un puzzle di non facile risoluzione, almeno senza il coinvolgimento del Colle.
Ieri Matteo Salvini e Luigi Di Maio si sono incontrati a Roma per raggiungere l'accordo definitivo su un nome comune da proporre a Sergio Mattarella.
PERSONA RICONOSCIUTA
Con molta probabilità è quello del giurista Giuseppe Conte che era stato designato da Di Maio come ministro per rivoluzionare la Pubblica Amministrazione. E l'identikit che offre Salvini a fine colloquio, quando arriva a Fiumicino, corrisponde: «Non saremo né io né Di Maio ma è un nome che soddisfa sia noi che loro: sarà una persona di valore, di spessore e riconosciuta». Anzi, dice di più: «È possibile che né il premier, e secondo me neanche alcuni ministri, abbiano mai votato Lega e Cinquestelle».
Ma conferma la linea comune: «Abbiamo chiuso l'accordo su premier e squadra governo, e speriamo che nessuno metta veti su una scelta che rappresenta la volontà della maggioranza degli italiani». Poi, ripete per tre volte che attende segnali dal Quirinale. Arriveranno di lì a poco con una convocazione al Colle oggi pomeriggio.
Le delegazioni arriveranno separate. Emerge invece con forza che i due leader scalpitano per partire. Entrambi, a modo loro. L'obiettivo è di giurare in settimana, «di firmare il contratto», dice Di Maio.
Accordo, dunque, su una persona che sarà baricentro delle due forze politiche e che ne rispecchi le istanze uscite dalle urne il 4 marzo. Il che spiega le bordate durissime alla Francia ieri. Il ministro dell'economia francese Brun o Le Maire infatti ha parlato di rischio dell'eurozona. «Se ci chiedono di fare come i governi precedenti, faremo l'esatto contrario. I francesi si occupino della Francia e non mettano il naso nelle cose altrui, semmai parliamo di Ventimiglia e dei migranti fermi al confine», ha risposto Salvini. Più conciliante Luigi Di Maio, il quale ha risposto a Le Maire «con un sorriso: fateci partire, poi ci criticate, ne avete tutto il diritto».
Di Maio esulta, al netto del suo passo indietro. «Ce l'abbiamo fatta! Sono stati ottanta giorni complicati, non è tanto la difficoltà di formare un governo, è imporre il nostro metodo che è stato difficile».
Il fatto che rinunci a fare il presidente del consiglio non vuol dire che si tirerà indietro. Corre infatti per il ruolo di vicepremier. «Ovviamente le prerogative sono del presidente della repubblica, adesso sceglierà lui i passaggi da fare», spiega a margine di una iniziativa elettorale a Teramo. «Posso solo dirvi che il presidente del consiglio dei ministri italiano sarà un amico del popolo e un amico del Movimento 5 stelle. Adesso noi vogliamo metterci al lavoro, quindi abbiamo chiesto che il ministero dello sviluppo economico con dentro quello del lavoro, un superministero per risolvere i problemi degli italiani, vada al Movimento 5 stelle insieme a tanti altri e insieme alla possibilità di guidare questo cambiamento». Salvini invece insiste sui migranti e dunque sul comparto sicurezza. Lo aveva già detto giorni fa che la Lega deve poter avere mano libera. Parole che gli hanno cucito addosso il ruolo da ministro dell'interno. Certi temi sono suoi, fa capire. E anche quando non lo sono direttamente non si fa problemi a dissipare dubbi e dissidi. Sulla Tav, per esempio. «Leggetevi il contratto, non c'è il blocco della Tav. Ci sono progetti che saranno riesaminati, alcuni saranno confermati, altri ridiscussi», ha detto. Così come le sanzioni alla Russia che vanno tolte. Quanto alla Nato, è scoppiato in una risata: «Mai messa in discussione». Così come ritiene intatta l'alleanza di centrodestra. Ma lo dice da Fiumicino, dove Forza Italia corre con il suo candidato sindaco, senza il Carroccio e Fratelli d'Italia.
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ROMA Insieme con lo stesso nome, terzo, al Quirinale per non far saltare tutto «perché è importante partire». Di Maio arriva a Roma da Ancona per affrontare poco più di un'ora di colloquio e chiudere l'accordo con Salvini. Le proposte dei Cinquestelle sono Giuseppe Conte o Riccardo Fraccaro ma nella convinzione che il Colle li riterrà inadeguati. Allo stato, sostengono nel Movimento, l'unico candidato credibile è Di Maio, ma Salvini continua ad opporsi e il Consiglio federale della Lega, seppur spaccato, sostiene questa posizione.
Ma il Movimento non può appaltare volto e gambe del programma stellato a un esterno. Perché? Ecco il ragionamento che arriva da un big Cinquestelle: se Salvini e Lega non capiscono quale è il problema vero, che chiunque diverso da Di Maio non darebbe alcuna garanzia di durata, perché basterebbero una decina di deputati o senatori per staccare la spina, c'è il rischio che salti tutto all'ultimo miglio.
Di Maio arriva di fronte a Salvini consapevole che gli chiederà, di nuovo, il sacrificio della sua premiership. Intanto nelle piazze racconta che accorperà il dicastero del Lavoro al Mise dove avrebbe mano libera sugli investimenti. E Di Maio, Salvini lo sa, non teme le grandi opere come i pentastellati di prima generazione. A Imola, lui appassionato di motori, ha promesso la resurrezione del circuito di Formula 1 con «un piano d'investimenti condiviso da sottoporre a referendum». Intanto di buon mattino ieri comincia a suonare sui social il requiem dolceamaro. Il la lo dà Giancarlo Cancelleri che elogia il capo politico attribuendogli grandi doti di altruismo e coraggio. Segnale chiaro. «Il nostro grande Luigi è davvero un faro nella notte», scrive l'ex candidato presidente della Sicilia. «Sorridete - prosegue messianico Cancelleri - oggi è la domenica della vittoria, oggi è il giorno del cambiamento, oggi siamo il popolo sovrano della rivoluzione gentile».
Salvini ha provato a convincere il leader M5S a fare un passo indietro in tutti i modi appellandosi al «grande senso di realtà», spiegano dalla Lega. Il capo del Carroccio ha ripercorso tutti gli sforzi fatti fin qui, non ultimo il programma di governo condiviso punto per punto e fatto votare alle rispettive basi. «Non ci si può incartare ancora sul nome da presentare al Capo dello Stato».
EXIT STRATEGY
E allora l'exit strategy più facile è quella di dire pubblicamente che comunque «il Movimento andrà al governo del paese», che «il prossimo presidente del consiglio sarà un amico del Movimento». Un modo per dire che una forma di larghe intese era non solo necessaria ma che per presidiare il governo servono i due leader dentro l'esecutivo. Come confermerà Salvini all'uscita dell'incontro: «Sì, abbiamo dato entrambi la disponibilità a entrare». Già, ma dove?