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Pescara, 24/07/2024
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Data: 03/06/2018
Testata giornalistica: Il Messaggero
«Pensioni e jobs act, si cambia». Di Maio: troppi precari il Jobs Act va rivisto Pensioni, quota 100. Dai licenziamenti più costosi al freno dei contratti a tempo. Le aziende delle regioni che votano Lega: «Ma la riforma del lavoro non va buttata»

ROMA Non si può dire che Luigi Di Maio, vicepremier e ministro del superdicastero Lavoro-Sviluppo, abbia perso tempo. Né che abbia già modificato il suo modo di comunicare con la gente. Ieri, subito dopo le celebrazioni ufficiali per la festa della Repubblica, è corso a via Veneto, dove uno di fronte all'altro sorgono i palazzi che ospitano i due ministeri appena accorpati e - con un videomessaggio Facebook - ha condotto per mano i suoi follower nelle stanze dello Sviluppo. Arrivato nel suo ufficio, al grido di «al lavoro, per creare lavoro», ha comunicato le sue prime mosse. A partire dalla «revisione del Jobs Act» per combattere l'eccesso di precarietà. Un male da curare anche secondo la Lega, che però frena sulla medicina e chiede più prudenza sul tema. Mentre invece spinge sull'altro dossier che Di Maio dice di voler affrontare subito, quello sulle pensioni: «Introdurremo quota 100 per superare la Fornero». Questa sì che è musica per le orecchie del collega vicepremier Salvini, che infatti conferma: «Entro la fine dell'anno, come promesso, reintrodurremo il diritto alla pensione per tanta gente che adesso ne è esclusa. L'obiettivo è di arrivare a regime al pensionamento con 41 anni di contributi a prescindere dall'età anagrafica».
Sul fronte mercato del lavoro, intanto, Di Maio per ora è netto: «Il Jobs Act va rivisto, c'è troppa precarietà. La gente non è che non ha più certezze per sposarsi, non ha più certezze neanche per prenotare le vacanze». Il neoministro non spiega come intende «rivedere il Jobs Act», salvo ribadire che proprio la riforma del lavoro bandiera del governo Renzi «è uno dei responsabili della precarietà». Una posizione antica, in effetti: Di Maio, sin dal 2014 anno di gestazione della legge, ha sparato a pallettoni contro la riforma. E durante la campagna elettorale ha puntato il dito contro l'abolizione dell'articolo 18 che tutelava il lavoratore dai licenziamenti senza giusta causa: «La nostra volontà è quella di reintrodurre l'Articolo 18 per le aziende con più di 15 dipendenti» ha detto in più di un'occasione.
Nel Contratto di governo non ci sono accenni all'articolo 18. Si legge: «Particolare attenzione sarà rivolta al contrasto della precarietà, causata anche dal Jobs Act, per costruire rapporti di lavoro più stabili e consentire alle famiglie una programmazione più serena del loro futuro». Una formula vaga.
LA CAUTELA LUMBARD
Ieri in casa Lega si rimandava proprio al Contratto. Claudio Borghi, responsabile economico del Carroccio, la mette così: «Sono giorni in cui ognuno sventola le proprie bandiere. Ed è normale. Ma c'è il contratto di governo e la risposta a tutti i quesiti si trova lì». E aggiunge: «In ogni caso alcune cose del Jobs Act possono essere riviste. L'eccesso di precarizzazione è sbagliato». E Armando Siri, economista della Lega: «Nessun disaccordo con Di Maio. Ritengo che vorrà adoperarsi per verificare tutte le possibili strade per un miglioramento del quadro normativo in funzione di una maggiore tutela del lavoro e penso che si confronterà anche con le parti sociali».
A microfoni spenti però qualche alto dirigente del Carroccio non nasconde di ritenere necessaria un po' di prudenza in più. E nel quartier generale della Lega c'è chi suggerisce di evitare «salti nel buio e azioni unilaterali, anche perché Di Maio si è appena insediato e prima di prendere decisioni è il caso che compia una ricognizione ampia e capillare della situazione». In estrema sintesi: «Siamo in una fase embrionale, è presto per dire se e come cambiare il Jobs Act». La reintroduzione dell'articolo 18? «Non è all'ordine del giorno e neppure nel Contratto di governo. Dunque...».
Nel suo videomessaggio Di Maio poi cita gli altri dossier di cui si occuperà a «breve, medio e lungo termine». C'è il fronte imprenditori: «Via spesometro, via redditometro, via studi di settore. Gli imprenditori li dobbiamo lasciare in pace» dice. E annuncia che chiamerà come consulente Sergio Bramini, l'imprenditore fallito nonostante i crediti milionari con la pubblica amministrazione, al quale qualche settimana fa è stata anche pignorata l'abitazione. «Dobbiamo portare avanti le politiche industriali, con investimenti nell'auto elettrica» continua, complimentandosi «senza ironia» con Marchionne «per il cambio di pensiero». Manca invece un riferimento al reddito di cittadinanza, ma il superministro si prolunga sul primo passo verso la misura: il potenziamento dei centri per l'impiego. «Sono di competenza regionale» constata, però promette: «Convocherò gli assessori al Lavoro di tutte le Regioni e cominceremo a lavorare per migliorarli». Poi chiuso il telefonino Di Maio si butta a capofitto nel lavoro con l'aiuto di Vito Cozzoli, candidato al ruolo di capogabinetto: sulle prime cartelline ci sono i nomi Ilva e Alitalia.

Dai licenziamenti più costosi al freno dei contratti a tempo


ROMA Rivedere il Jobs Act? L'intervento annunciato dal super-ministro Luigi Di Maio potrebbe anche spingersi fino al ripristino per l'articolo 18 per i neo-assunti (presumibilmente nella versione già ritoccata dal governo Monti nel 2012). Ma è possibile ed anzi probabile che le scelte del governo si orientino verso altre soluzioni. Si ragiona ad esempio di lasciare l'attuale impianto del contratto a tutele crescenti, introdotto nel 2015 dall'esecutivo Renzi, che prevede in caso di licenziamento senza giusta causa in luogo del reintegro un indennizzo monetario: ma il correttivo consisterebbe nell'aumentare le mensilità che il datore di lavoro è tenuto a pagare (attualmente oscillano da 4 a 24 a seconda dell'anzianità, salvo che nelle piccole aziende): in questo modo il prezzo da pagare per l'uscita del lavoratore diventerebbe più alto e dunque meno conveniente, pur se sempre fissato in anticipo.
LA LEGGE
Ma l'attenzione dello staff di Di Maio si sta concentrando anche su un'altra legge precedente, il cosiddetto decreto Poletti del 2014 con il quale era stata di fatto completata la liberalizzazione dei contratti a termine. Tra gli altri aspetti, era stato cancellato l'obbligo di una specifica causale per il ricorso a questo tipo di rapporto di lavoro. Oggi quindi non è più necessario giustificare un contratto a tempo determinato ad esempio con un'esigenza produttiva momentanea o con la sostituzione di un altro lavoratore temporaneamente assente. L'obbligo potrebbe essere ripristinato, con l'effetto di porre un freno a questo tipo di assunzioni. Va ricordato che lo scorso autunno anche il governo Gentiloni aveva accarezzato l'idea di intervenire sullo stesso tema nella legge di bilancio; in realtà più che sul punto della causale, sulla durata massima dei contratti che sarebbe dovuta passare da tre a due anni. Ma poi non se ne era fatto nulla.
I CONTRIBUTI
Contemporaneamente viene ipotizzato anche un intervento che andrebbe ad appesantire la contribuzione per i contratti a termine, di nuovo con l'obiettivo di renderli meno convenienti. Anche questo è un aspetto che in passato è stato al centro dell'attenzione dei governi di centro-sinistra.
Interventi in questa direzione, piuttosto che sull'articolo 18 in quanto tale, potrebbero avere un senso per un governo che si prefigge di combattere la precarietà, se per precarietà si intendono proprio i rapporti di lavoro a tempo determinato. Per capire perché basta dare un'occhiata ai più recenti numeri dell'Istat sulla situazione del mercato del lavoro - relativi al mese di aprile - e confrontarli con quelli del marzo 2015, quando cioè entrò in vigore il Jobs Act (già dal mese di gennaio era operativa la decontribuzione, forte incentivo finanziario pensato per accompagnare la fase iniziale del nuovo regime). In questi circa 3 anni il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato è cresciuto di 358 mila unità, mentre quello dei dipendenti a termine ha fatto registrare un incremento molto più sensibile (638 mila unità). Nello stesso arco di tempo i lavoratori indipendenti sono diminuiti (121 mila in meno). Questa tendenza si è fatta molto più evidente dal 2017 in poi: vuol dire probabilmente che - una volta esaurito l'effetto degli incentivi - gli imprenditori non hanno trovato completamente conveniente la nuova formula, pensata proprio come alternativa (più garantita) alla precarietà dei contratti a termine e delle collaborazioni.
LA REVISIONE
Infine tra le opzioni che si stanno esaminando c'è anche quella di rivedere il regime di decontribuzione al 50 per cento per le assunzioni di giovani, entrato in vigore proprio quest'anno: regime che a differenza di quello del 2015 non è temporaneo ma fa parte stabilmente dell'ordinamento.

Le aziende delle regioni che votano Lega: «Ma la riforma del lavoro non va buttata»

MILANO Per alcuni è intoccabile, per altri va rivisto, o comunque è arrivato il momento di andare oltre. La spallata di Luigi Di Maio al Jobs Act scuote gli imprenditori, impegnati a prendere le misure con il nuovo governo Lega-Cinquestelle. Nel contratto di governo si parlava genericamente di lotta alla precarietà determinata dall'ultima riforma del lavoro, ora il mondo dell'industria attende le misure che potrebbero confluire nella prossima manovra.
Per Francesca Accinelli, rappresentante del consiglio centrale della Piccola industria di Confindustria, «indubbiamente il Jobs Act va rivisto, se ne è sempre parlato, il problema è ciò che crea la revisione del Jobs Act e mi sembra che questo nuovo governo sia poco attento ai conti, o quanto meno è quello che si percepisce». Modificarlo, dunque, ma in che modo? «Bisogna studiarlo di nuovo e ricontrattualizzarlo in base all'attuale situazione dell'economia italiana. Serve un'analisi che comprenda tutta la forza lavoro straniera e un ragionamento sul futuro». Anche Ettore Riello, imprenditore veronese e presidente di Aefi (l'associazione degli enti fieristici) ritiene che l'ultima riforma del lavoro sia perfettibile. «Credo che qualche revisione vada fatta, non mi sembra abbia generato chissà quali miglioramenti - precisa - Il problema tuttavia non è l'intervento singolo, ma il contesto generale: il governo è di fronte a una grande scommessa. Qualcosa di buono c'era nel Jobs Act, l'importante è non buttare tutto a mare».
VIA AL CONFRONTO
Ma il presidente di Confindustria sulla questione è irremovibile: «Il Jobs Act e l'industria 4.0 stanno mostrando gli effetti nell'economia reale, perciò è importante che non vengano distrutti e si prosegua su questa strada», ha avvertito solo una settimana fa. Chiedendo un tavolo di confronto sulle proposte: «Le nostre parole chiave restano lavoro, crescita, debito. Non possiamo rimettere in discussione le regole del gioco a ogni cambio di governo, altrimenti perdiamo credibilità e investitori». Via alle trattative dunque, ma alcuni temi non si toccano, mette in chiaro Luciano Vescovi, imprenditore nel settore dell'edilizia e presidente di Confindustria Vicenza. «Adesso è arrivato il momento della serietà, è finita la propaganda e la necessità strumentale di prospettare soluzioni fantasiose a questioni di grandissima complessità. L'Europa, i cui rappresentanti politici in questi giorni non hanno fatto una gran figura, è imprescindibile, ma il presidente Mattarella ha messo un punto fermo su questo. Il lavoro (con il Jobs Act), le infrastrutture (Tav, Pedemontana, Valdastico nord) e l'istruzione sono pilastri portanti per l'economia: se anche uno solo dei tre cade, poi a pagarla cara saranno gli italiani, specialmente quelli meno attrezzati a pararne i colpi».

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