CHIETI«Gli abruzzesi cadono e si rialzano da soli. Non perdono tempo a lamentarsi, ma fanno, producono, ricostruiscono». Ci lascia questa frase in eredità, Sergio Marchionne, e tanti ricordi legati alla sua terra e alla sua Chieti. Il più bello è un'immagine in bianco e nero del 1961. Gli alunni della scuola elementare Nolli posano per la foto di classe. Indossano fiocco e grembiule ordinati per le grande occasioni. Il maestro Viola poggia la mano destra sulla spalla di uno di loro. Quel bambino che gli sta accanto, nella foto che Luciano Gentile custodisce come una reliquia, è Marchionne. «Il capoclasse», dice il compagno di scuola.Erano gli anni in cui il papà maresciallo, Concezio Marchionne, lavorava alla legione di carabinieri a Madonna degli Angeli, e Sergio, la mamma Maria e la sorella Luciana, vivevano in via Ferdinando Galiani, nel quartiere di Santa Maria. «Una famiglia semplice, una bella e sana famiglia», racconta Alceo Esposito che ricorda l'amicizia stretta tra la famiglia Marchionne e quella di sua moglie, il medico Vincenzina Di Marco, «sia Sergio sia Luciana erano molto studiosi tanto che il soprannome che Sergio aveva in città tra quelli della sua generazione era "coccione"», che a Chieti sta a significare ragazzo molto intelligente. Dal 1962 al '66 i Marchionne si trasferiscono in via Menozzi Guzzi, quasi dalla parte opposta di Chieti.«Giocavamo a pallone nel cortile sotto casa», racconta Romano Frezzini, «era il migliore amico di mio fratello Tonino, scomparso a 28 anni. Chiese di lui quando tornò a Chieti anni fa e alla notizia della scomparsa prematura di mio fratello, rimase molto turbato. Sergio già da adolescente era molto determinato: difficilmente passava il pallone perché voleva fare lui il gol. Un leader lo riconosci anche da questo. Indossava il maglione blu già da ragazzo», aggiunge, «socievole, vivace compagnone ma soprattutto generoso: metteva a disposizione di tutti la sua bicicletta e il suo pallone». Di parenti, in Abruzzo, ne ha un drappello. «Sergio ha sempre fatto ciò che voleva fare: lavorare sedici ore al giorno senza avere alcuna paura. Neanche della morte», dice il cugino Paolo Sablone che non ha fatto in tempo a consegnargli un dono molto particolare; una targa per il 60esimo anniversario della nascita della Fiat 500 che il presidente dell'Old Motors Club, il teatino Fabio Di Pasquale, gli ha donato. «Sarei dovuto andare da lui a settembre, in occasione del Gran Premio di Formula 1 a Monza, come in passato ha fatto mio fratello Raffaele. Ma ora non ha più senso parlarne», continua Sablone, uno degli 11 cugini abruzzesi che hanno appreso la notizia della morte da Manuela, la compagna del grande manager, e le hanno chiesto dei funerali. Lei per ora ha risposto solo con un «Grazie». Alcuni parenti, che vivono a Chieti Scalo, sono stati anche a trovarlo nell'ospedale di Zurigo. E ora chiedono solo riserbo. Da loro si viene a sapere che l'ultimo saluto a Marchionne quasi certamente non avverrà nella città dove il manager è nato il 17 giugno del 1952, ma in Canada dove riposano il papà Concezio, la mamma Maria e la sorella Luciana, ricordata ieri in un post da Stefano Marchionno come studentessa modello del liceo classico G.B. Vico di Chieti.E lì, a Toronto, sarà sepolto anche il manager che aveva l'Abruzzo nell'anima. «Anche questa terra, che è la mia terra, è una dimostrazione che c'è speranza, per quello che ha sempre dimostrato di saper fare nei momenti più duri», le sue parole dette all'Aquila il 3 ottobre 2013 in occasione di un premio prestigioso, l'Aprutium. Parole che oggi vanno lette e rilette.«La tenacia degli abruzzesi, quella caparbia fiducia nel futuro che mio padre mi ha lasciata in eredità, è qualcosa di radicato nella gente di qua», disse. «Non ho mai visto un abruzzese arrendersi, non l'ho mai visto aspettare che arrivasse un salvatore chissà da dove a regalargli un domani migliore». E poi la frase più bella: «Gli abruzzesi cadono e si rialzano da soli, non perdono tempo a lamentarsi, ma fanno, producono, ricostruiscono: credo che sia questo l'atteggiamento di cui oggi l'Italia ha bisogno». L'eredità che Sergio Marchionne lascia alla sua terra.
LE REAZIONI ALLA SEVEL. La sua fabbrica lo saluta come fece con Agnelli. Una pausa di un quarto d'ora per ogni turno in segno di lutto per Marchionne. Gli operai: «A lui possiamo solo dire grazie». I sindacati: «Era un protagonista»
ATESSA Una pausa di un quarto d'ora in ognuno dei tre turni, con gli operai in piedi, fermi davanti alla postazione in segno di rispetto, e le sirene che avvertono dell'inizio e della fine del fermo produttivo. La Sevel saluta così Sergio Marchionne, l'abruzzese, il manager, l'uomo che dialogava con il futuro. Nel 2003 per l'addio all'avvocato Gianni Agnelli, la Sevel si era fermata in segno di lutto solo un minuto. E forse, nella fabbrica dei record che traina l'export e l'automotive di tutto l'Abruzzo, la straordinarietà degli uomini si misura proprio col tempo. In uno stabilimento che non si ferma mai e che impegna da mesi quasi tutti i sabati e le domeniche del calendario, che scandisce i ritmi di lavoro con un sistema metrico programmato al secondo e che produce un furgone al minuto, il vuoto che lascia Marchionne è, dal punto di vista morale, più che produttivo, enorme.
LA FABBRICA. Alle 13,45, a pochi minuti dal cambio turno, la notizia della morte dell'amministratore delegato Fca è già arrivata dentro le officine. Sotto il sole di luglio, lungo il viale Gianni Agnelli c'è un silenzio irreale, si sente solo il rombare cupo delle macchine. Le bandiere sono a mezz'asta. Al cambio turno i dipendenti escono frettolosi, occhi bassi e passo svelto. C'è chi deve correre a casa per il pranzo e chi deve prendere l'autobus. In pochi si attardano a commentare la notizia che ha sconvolto il mondo dell'auto, fa caldo dentro e fuori le tute bianche Fca.
I DIPENDENTI. «Sono di Pomigliano, a Marchionne posso solo dire grazie» dice un ragazzo mentre raggiunge l'autobus. Ciro è un trasfertista. Ce ne sono 400 come lui in Sevel. Sono i dipendenti di altri stabilimenti Fiat che vengono a dare una mano nello stabilimento abruzzese che per numeri e produzione arranca sotto il peso crescente delle richieste di mercato. Altri due dipendenti, uno di Pomigliano, l'altro di Melfi, scambiano alcune parole. «Ha tirato fuori la Fiat da una brutta epoca. La pausa? È giusto: le hanno date per chi ha creato la Fiat e per chi l'ha salvata». «A Melfi», dice Francesco, «produciamo la Jeep. La fabbrica ha cambiato totalmente volto, grazie a lui abbiamo rivoluzionato il modo di produrre, siamo cresciuti professionalmente». «Mi dispiace per la sua morte», dice una ragazza, da 13 anni in Sevel, «è stato un grande manager e un grande uomo. Dispiace anche per chi lo critica, in fondo lui ha fatto il suo mestiere. Ricordo ancora quando nel 2009 lavoravamo una settimana sì e due no. Adesso i conti Fiat sono tornati a posto». «Il futuro non sarà lo stesso senza di lui», si lascia sfuggire un team leader, «era un italiano, un abruzzese, ci teneva alla Sevel. Chi verrà dopo di lui ha una strada già avviata, ma anche una grande responsabilità».
I SINDACATI. «Ha preso in mano la Fiat nel 2004 sull'orlo del fallimento e l'ha trasformata in una grande multinazionale», osserva Domenico Bologna, Fim. «Con lui abbiamo siglato accordi a volte sofferti ma sempre fondamentali per la salvaguardia degli stabilimenti italiani», dice invece Nicola Manzi, Uilm. «Il mondo dell'industria automobilistica internazionale perde uno dei suoi maggiori protagonisti», dice Gianluca Gagliardi, Fismic. La Fiom ha volutamente tenuto un profilo basso: «Marchionne è stato colui che ci ha cacciato fuori dalla Fiat e che ha fatto uscire il gruppo da Confindustria», dice Davide Labbrozzi, Fiom Chieti, «dispiace per l'uomo, la cui morte merita rispetto, ma non abbiamo condiviso molte delle sue scelte».