Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, in vista della messa a punto della manovra possiamo trarre un primo bilancio dell'azione di governo dopo il faticoso via libera al decreto Dignità? Vi aspettavate qualcosa di più?
«Sì, molto di più. Ci sentiamo delusi nel merito e amareggiati nel metodo. Il decreto dignità aumenta il costo del lavoro, a proposito di flat tax, e non aumenterà l'occupazione. La capacità di governo del Paese si misura dai risultati e se i risultati non arrivano perde il Paese con i suoi cittadini. A proposito di cittadini, troviamo davvero ingenerose, al limite della volgarità, le parole di alcuni esponenti dei partiti di governo nei confronti del sistema di rappresentanza».
Si spieghi meglio.
«Se la politica e i partiti vogliono riappropriarsi del loro primato non possono limitarsi a seguire i sondaggi e la piazza, come qualcuno ama dire. Il nervosismo del nostro mondo è molto elevato e di questo passo dovremmo prevedere - speriamo di non arrivare a tal punto - di portare i cittadini imprenditori in piazza. Se si insiste con certe provocazioni saremo costretti a farci sentire. È scorretto il tentativo di indicare come politicizzato chi fa critiche e di considerarci cittadini di serie B fingendo d'ignorare che gli artigiani, Cna in testa, e Reteimprese Italia nelle loro audizioni parlamentari hanno sollevato le stesse nostre obiezioni. Ci vorrebbe più rispetto per questo mondo, che conta circa 2,5 milioni di associati. Quanto alla disintermediazione, abbiamo già visto che, quando si vuole fare ciò che si vuole, si evita il confronto. Sappiamo come funziona».
Le imprese, è noto, sono il volano della crescita ma non sembrano proprio al centro dell'azione dell'esecutivo. Con la manovra dovrebbero infatti arrivare solo la flat tax per le partite Iva e la riforma dei centri per l'impiego. Poco per contrastare il rallentamento dell'economia e lo stallo sul fronte dell'occupazione?
«Noi confidiamo che la manovra non sia concepita in termini elettoralistici, altrimenti da un lato si invoca il cambiamento e dall'altro si gettano le basi per una società consociativa, corporativa e, peggio ancora, una società in cui se critichi vieni penalizzato. A questo proposito, si parla da qualche tempo di far uscire le imprese pubbliche da Confindustria. Vorremmo ricordare che tali aziende rappresentano il 4% dei contributi e il 2% dei voti: se qualcuno pensa di indebolirci per ridurre la nostra autonomia, come si dice dalle mie parti, ha sbagliato palazzo. Il nostro sistema di rappresentanza è compatto come non mai. Dalle Assise di Verona, dove abbiamo condiviso metodo e proposta e si è vista la presenza di oltre 7.000 imprenditori, alla nostra assemblea annuale per finire all'ultimo consiglio generale sul decreto Dignità è chiaro ed evidente che c'è unità di visione e una ferma volontà di non arretrare di fronte a nulla per il bene delle imprese e, quindi, del Paese».
Che cosa bisognerebbe fare per dare sprint alla ripresa e stimolare la creazione di posti di lavoro?
«Iniziare a parlare di responsabilità oltre che di diritti. Ricordarsi che abbiamo il secondo debito pubblico più grande al mondo rispetto al Pil e che fare ricorso al deficit significa accumulare altro debito a danno delle generazioni future ossia, per dirla col linguaggio di oggi, dei giovani cittadini. Darsi una mission come Paese, che è quella di creare una società inclusiva, eliminando i divari e puntando sulla centralità del lavoro a partire da un grande e massivo piano di inclusione dei giovani, detassando e decontribuendo il lavoro dei giovani e riducendo le tasse a vantaggio di tutti i lavoratori italiani: il primo grande passo di una flat tax nell'interesse del Paese e diretta a costruire equità generazionale. Da mesi parliamo solo di migranti e di pensioni. Non basta, dobbiamo aggiungere altri punti importanti per affrontare le complessità del Paese».
Anche sul fronte delle grandi opere c'è una situazione confusa. La Tav Torino-Lione e la Tap sono al centro di una contesa molto aspra tra Lega e 5Stelle.
«La cosa più grave a nostro avviso è che si mettono in discussione cantieri e non progetti con il rischio di dover pagare penali miliardarie che peserebbero sui cittadini contribuenti e sulle imprese. Dobbiamo ricordare che il nostro è un Paese che non ha materie prime e che vive di export. Dei circa 540 miliardi di esportazioni, 450 arrivano nel nostro Paese grazie all'industria. Inoltre, e questo è l'aspetto più strategico, noi rifiutiamo l'idea di un'Italia periferia d'Europa immaginando invece un'Italia centrale tra Europa e Mediterraneo: un grande hub geoconomico aperto al mondo. Per farlo abbiamo bisogno di infrastrutture che, piccole e grandi, colleghino periferie a centri e il nostro Paese al mondo. Sono la precondizione per l'inclusione e non è affatto un aspetto marginale».
Stesso discorso per quanto riguarda l'Ilva, la più importante realtà industriale del Sud?
«Sulla soluzione dell'Ilva confidiamo nel buon senso. C'è stata una gara e c'è un investitore vincitore. Ora occorre coniugare ambiente, sviluppo e occupazione. L'Ilva rappresenta la questione industriale nazionale, del Mezzogiorno, dell'occupazione e dell'indotto. A oggi c'è ancora molta incertezza. Sembrerebbe una tattica tesa a far scappare l'investitore. Speriamo non sia così e che si arrivi a una soluzione nell'interesse del Paese. Soluzione che non passi, per l'Ilva come per l'Alitalia, per la Cassa depositi e prestiti per fare cose a nome dei cittadini che pagano però i cittadini».
Sempre restando nel Mezzogiorno. Serve un piano organico per recuperare terreno?
«Il Mezzogiorno da molti anni è stato ignorato, se non tradito. Adesso deve diventare un laboratorio sperimentale delle migliori pratiche. Occorre investire in infrastrutture, continuare a usare i fondi strutturali per ridurre il global tax rate a favore di chi investe nelle regioni meridionali, aprire ai giovani. Quel che vale per il Paese vale il doppio nel Mezzogiorno. Le aspettative sono alte. La questione industriale italiana è anche la questione del nostro Mezzogiorno».
Spread e agenzie di rating ci aspettano al varco in questo mese. È preoccupato? Crede che l'agenda politica economica alla fine la possano dettare proprio i mercati, come teme del resto il ministro Tria che vuole evitare forzature sul fronte del debito?
«Il ministro Tria parla il linguaggio del buon senso. Ci auguriamo che le sue parole siano ascoltate e rispettate. I mercati non si lasciano influenzare dalle buone intenzioni ma premiano o puniscono le azioni che valutano virtuose o dannose. Vale in tutto il mondo e vale anche per l'Italia. Non serve gridare al complotto, ma comportarsi con responsabilità non solo nei confronti del proprio elettorato ma dell'intero Paese. Né serve usare l'Europa come alibi. L'Europa va riformata ma è la soluzione: solo con più Europa ci difenderemo dai dazi e dalle politiche commerciali aggressive di altri Paesi».
Anche la fine del Qe Draghi impone scelte rigorose, anche se si parla di una manovra da 40 miliardi, con flat tax, reddito di cittadinanza, modifiche alla Fornero. Forse sarebbe meglio essere realisti: tutto e subito pare impossibile. Quali le priorità a suo giudizio?
«Dipende da quale orizzonte temporale si sono dati i partiti che governano il Paese. Su un piano di legislatura di un quinquennio sono cose realizzabili. Ma occorre definire delle priorità. Il primo anno dovrebbe essere quello dell'attenzione al lavoro e alla inclusione a partire dai giovani. Poi, man mano che il Paese cresce, bisogna usare le risorse per rispettare il Piano di governo da realizzare a saldo zero e non a deficit. E senza aggredire i fattori di produzione in un Paese come il nostro, la seconda manifattura d'Europa, che deve molto del suo benessere a un'industria che il mondo ci invidia. E che vive il paradosso delle patrimoniali sui fattori di produzione: come l'Imu sui capannoni industriali, per citare una delle tante anomalie e criticità».
(*) Presidente di Confindustria