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Data: 22/08/2018
Testata giornalistica: Il Messaggero
Porti, acque minerali, bancarelle: la guerra delle mille concessioni «Ma il modello municipalizzate non è sostenibile: Atac insegna»

ROMA Autostrade Spa è finita sulla graticola delle concessioni per la più crudele delle tragedie, ma il dossier su come Stato, Regioni e Comuni fanno gestire i loro beni dai privati era già rovente. Già perché le concessioni in Italia sono centinaia di migliaia e da sempre vengono gestite malissimo in quasi tutti i 24 vastissimi settori (si va dalla tv al petrolio, dalle funivie ai porti) nelle quali sono suddivise .
I casi più noti sono quelli delle spiagge e delle bancarelle. Le prime sono beni demaniali le cui cifre parlano da sole: le amministrazioni pubbliche ricavano un centinaio di milioni sui 15 miliardi di fatturato del settore. Anche quello delle bancarelle, che occupano suolo pubblico, è un nodo spinosissimo per i sindaci che per legge (la direttiva europea Bolkestein) dovrebbero mettere a gara il rinnovo della concessione. Una procedura vista con il fumo negli occhi dai circa 200.000 ambulanti italiani.
E' gara, infatti, la parola chiave del dossier concessioni. Invisa da chi gestisce i beni a condizioni generalmente di favore o comunque considerate come acquisite, la gara viene vista invece dall'Europa, dall'Antitrust e da una parte dei legislatori italiani come la leva con la quale scardinare (o tentare di farlo) privilegi, interessi e prebende d'ogni genere, comprese quelle riservate ai dipendenti delle aziende che godono di concessioni agevolate.
Non a caso, uno dei nodi più roventi fatto emergere dal Nuovo codice degli Appalti, come ha raccontato l'ex senatore del Pd Stefano Esposito, fu proprio quello di stabilire quanti lavori di manutenzione il concessionario Autostrade potesse fare in proprio e quanti dovesse appaltare con un concorso fra imprese concorrenti.
IL CASO FUNIVIE
L'obbligo di gara è stato recentemente ricordato dall'Antitrust per un settore di nicchia come quello delle funivie. Gli amministratori della provincia di Bolzano se ne erano dimenticati in ben 13 casi. E sempre la gara è anche lo spauracchio di una delle società concessionarie più famose d'Italia: l'Atac. Società del Comune di Roma che per conto del Comune di Roma gestisce gran parte della rete di trasporti pubblici di Roma la cui concessione sarebbe dovuta andare a gara nel 2019. Una dead line che la giunta pentastellata ha fatto slittare al 2021.
Un altro settore le cui concessioni scottano da sempre è quello delle acque minerali. Su questo comparto ha fatto chiarezza ad aprile un rapporto del ministero dell'Economia . Che fotografa questa situazione: le 295 concessioni (rilasciate a 194 aziende diverse) assicurano incassi alla pubbliche amministrazioni pari ad appena 18,4 milioni di euro su un fatturato del settore stimato in 2,7 miliardi di euro. Traduzione: i Comuni e le Regioni proprietarie delle acque minerali italiane ricavano meno dell'1% del valore generato dal loro bene. E' il giusto? Le società del settore assicurano di sì perché - dicono - l'acqua in sé ha scarso valore. Ma lo acquista solo dopo che i concessionari la scoprono, la lavorano e la commercializzano.
C'è poi il caso paradossale dei porti per i qualim lo Stato la concessione non riesce a riscuoterla nostante la volontà dei concessionari di pagare anche di più. In sintesi, la storia è questa: le concessioni demaniali dei porti sono regolate da una legge del 1942 parzialmente cambiata nel 1994. Si tratta di norme datate che avevano bisogno di un regolamento bocciato dal Consiglio di Stato e poi rimpallato fra i ministeri. Risultato: fino alla scorsa primavera non si capiva esattamente quanto pagare e molti investitori stranieri (i porti stanno vivendo un boom in tutto il mondo) si sono tenuti lontani dall'Italia . Il regolamento pare sia arrivato lo scorso 6 febbraio. Dopo 76 anni.


«Ma il modello municipalizzate non è sostenibile: Atac insegna»

«Noi italiani tendiamo a dimenticare la nostra storia. In passato abbiamo oscillato da una massiccia gestione diretta dei beni pubblici da parte dello Stato ad una fase nella quale, per scelta o per far cassa, abbiamo privatizzato molto o dato in gestione ai privati parti importanti del patrimonio pubblico. Ora siamo di fronte ad un'occasione per varare nuove regole. Ma certo senza tornare a modelli che non funzionano, come quello di alcune municipalizzate come l'Atac».
Non la manda a dire Enrico Giovannini, economista di Tor Vergata, per 8 anni capostatistico dell'Ocse, poi presidente dell'Istat e ministro del Lavoro del governo Letta. Raggiunto al telefono in treno mentre si reca al Meeting di Comunione e Liberazione spiega che di nazionalizzazioni non se ne parla. «Mi concentrerei su ipotesi realizzabili - sospira - E dunque su una possibile revisione generale delle migliaia di concessioni». «Non tanto o non solo - spiega - per consentire al pubblico di ricavare di più ma soprattutto per incrementare gli investimenti, perché l'Italia ha un bisogno estremo di reti infrastrutturali materiali e immateriali efficienti e adeguate».
Già, ma da dove iniziare? «All'Ocse, più di 10 anni fa - racconta Giovannini - facemmo uno studio sull'obsolescenza delle infrastrutture europee. Mica solo i ponti: in tutta l'Unione negli anni 50 e 60 sono state costruite ferrovie, linee elettriche, aeroporti, molte infrastrutture delle città. Per non cadere dal pero ad ogni cedimento di infrastrutture progettate tanti anni fa bisogna prevedere cosa succederà in futuro».
IL NODO RISORSE
Un compito immane. «Inevitabile - spiega ancora l'economista - Anche perché vanno considerati fenomeni nuovi, come flussi di traffico più robusti o il cambiamento climatico che cambierà i parametri della progettazione». Ma abbiamo le risorse per sostenere questo sforzo? «Cambiare i contratti di concessione può servire anche a questo. Semplificando, bisogna trovare nuovi punti di equilibrio tra interessi pubblici e privati nella gestione delle opere pubbliche, imponendo maggiori investimenti. Le tecnologie stanno cambiando e servono anche nuove reti, come quella della banda larga».
Dunque quello che il professore mette in risalto è innanzitutto una questione di metodo. «La capacità di anticipare il futuro resta essenziale - spiega - Prendiamo Singapore. Hanno deciso di essere la prima città al mondo con le auto saranno tutte automatiche e, dunque, in futuro avranno meno vetture. Allora hanno deciso di elevare l'altezza dei nuovi garage perché potranno diventare, ad esempio, negozi». Professore, al di là del metodo resta però il tema delle risorse. «Si tratta di fare scelte chiare - risponde - Ridurre spese correnti e servizi pubblici inefficienti e aumentare la spesa per investimenti è essenziale, magari attraendo capitali internazionali che adottano innovativi criteri economici, sociali e ambientali per scegliere dove andare. Dall'altra parte, dobbiamo trovare il modo di rivedere le attuali concessioni valorizzando meglio i beni dati in concessione». Sarebbe stupido, spiega, penalizzare i privati. Una strada possibile è quella di ampliare i servizi al pubblico anche sfruttando nuove tecnologie. Un esempio potrebbe venire proprio dalle autostrade che stanno già sperimentando tecnologie che consentono alle auto di leggere i segnali stradali. Dall'Internet delle Cose all'offerta di nuovi servizi il passo sarà breve. «Insomma - sottolinea Giovannini - Con la revisione delle concessioni bisogna spingere i privati verso una maggiore efficienza e una più elevata propensione all'innovazione».
C'è un ultimo punto che sta a cuore allo statistico: «Noi italiani misuriamo con precisione i flussi delle entrate e delle uscite dei conti pubblici - assicura Giovannini - Dobbiamo invece migliorare, e molto, le informazioni qualitative e quantitative sul patrimonio dell'amministrazione pubblica, così come il capitale naturale di cui disponiamo e che va deteriorandosi rapidamente. E' sempre più vero che se non sai misurare non sai gestire».

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