ROMA Gli italiani, si sa, non hanno buona memoria. Pochi ricordano che di fatto fin dal secondo governo Berlusconi, quello che prese in mano le redini del paese nel 2001, il ministero dell'Economia è in mano a figure tecniche più che politiche e che comunque gli screzi fra via XX settembre e il resto del governo sono stati una costante sotto i governi di qualunque colore politico.
Raramente, però, si è assistito ad un incrocio di tesi così diametralmente opposte come quello offerto ieri dalle dichiarazioni del ministro tecnico dell'Economia, il professor Giovanni Tria, e quelle del vicepremier e leader del M5S, Luigi Di Maio.
Il primo, come vedremo, a Milano in occasione del Bloomberg European Capital Markets Forum, ha fatto un discorso macroeconomico assai misurato nel quale ha ribadito che l'Italia rispetterà i parametri europei (e dunque il deficit si aggirerà sull'1,6% e il debito scenderà sia pure di poco) ma cercando di porre rimedio ai veri problemi italiani che secondo Tria non sono circoscritti alla povertà ma all'alto livello delle tasse e al crollo degli investimenti pubblici (strade, ferrovie, scuole, reti infrastrutturali) che mettono a rischio il futuro del Paese. Per Tria è strategico che gli investimenti pubblici in Italia aumentino dall'attuale 2% del Pil fino almeno al 3, per consentire al paese di tornare a crescere come gli altri paesi europei.
IL MACIGNO
Un ragionamento su quale si è abbattuta come un macigno la glaciale frase pronunciata nel pomeriggio da Di Maio. Eccola: «Nessuno ha chiesto le dimissioni del ministro Tria ma pretendo che il ministro dell'Economia di un governo del cambiamento trovi i soldi per gli italiani che momentaneamente sono in grande difficoltà. Gli italiani in difficoltà non possono più aspettare, lo Stato non li può più lasciare soli e un ministro serio i soldi li deve trovare». Una frase che l'opposizione, per bocca del democrat Graziano Delrio, ha commentato così: «Sono parole che non aiutano la credibilità dell'Italia».
Cosa significhi questo in concreto lo si vedrà solo nelle prossime settimane. Ieri i 5Stelle hanno rilanciato idee riprese dal carnet elettorale come quella di colpire le pensioni oltre i 4.500 euro mensili e di ridurre le disponibilità per le Regioni che non tagliano i vitalizi dei loro ex consiglieri. Entrambe le proposte, però, sono in grado di rendere pochissimo: al massimo 3-400 milioni la prima (a forte rischio di incostituzionalità) e pochissimo la seconda visto che i vitalizi regionali sono già sottoposti ad un contributo di solidarietà e che comunque assorbono complessivamente circa 150 milioni di euro.
Briciole, insomma. Mentre non è ancora chiaro quanti miliardi potrà assorbire il reddito di cittadinanza.Da parte sua ieri Tria ha fatto balenare un piano per l'Irpef. «Il governo -dice - è impegnato a ridurre il carico fiscale e questo va ben oltre la flat tax. Siamo allo stadio avanzato di un piano che semplifichi l'imposta sul reddito personale, riducendo la pressione sulla classe media, con un impatto gestibile sul budget». Tria ha ribadito che è necessario aumentare la spesa per chi perde il lavoro e va accompagnato fino ad un nuovo impiego. «Dobbiamo fornire schemi di tutela», ha affermato. Ma ha poi aggiunto che queste misure «non cambieranno il nostro impegno sulla riduzione del debito».
E nemmeno l'impegno sulle «riforme strutturali», come quella della riforma della giustizia civile, che saranno però all'insegna della crescita, «forte e sostenibile», dell'Italia. «Il governo - sottolinea ancora il ministro - si è impegnato a una legislatura di cinque anni con un'attuazione progressiva delle riforme». E, «nel rispetto dei vincoli europei si impegna in un percorso di sviluppo, tenendo conto dei diversi bisogni sociali, che crei una solida base per una crescita di lungo termine».
Intanto Di Maio ha annunciato a Dimartedìsu La7 la nuova offensiva della maggioranza giallo-verde in tema di riforme istituzionali. Con la Lega, ha detto, «noi ci capiamo sui fatti, abbiamo fatto una riunione e la settimana prossima presentiamo una proposta di legge costituzionale per tagliare 345 parlamentari» con «100 milioni di euro di risparmi l'anno».
L'amarezza del professore: «Posso togliere il disturbo»
ROMA Raccontano che quando Giovanni Tria ha letto l'ultima dichiarazione di Luigi Di Maio, quella con cui il capo pentastellato ha intimato al ministro («se è serio») di sganciare «i soldi» per il reddito di cittadinanza, sul visto di Tria si sia disegnata una leggera smorfia di fastidio. Ed esattamente come una settimana fa, esattamente anche allora sotto il tiro di Di Maio, Tria avrebbe sospirato: «Se non vado bene posso anche togliere il disturbo». Una frase, quella del ministro sotto assedio, non confermata dal Mef e probabilmente gettata lì a dimostrare la propria insostituibilità. Perché blindato da Sergio Mattarella, che non apprezza affatto l'assalto contro chi, anche dietro suo suggerimento, tiene salda la barra del rapporto deficit-Pil e dei saldi di bilancio. E perché i mercati finanziari, lo spread, sono la sua assicurazione sulla vita. «Se forziamo sul deficit i mercati ce la faranno pagare», ha avvertito lunedì sera Tria durante l'incandescente vertice con Di Maio, Matteo Salvini sulla manovra economica. Ma resta l'irritazione di Tria per i toni ultimativi di Di Maio e, soprattutto, perché viene messa in dubbio la serietà del lavoro svolto in via XX Settembre.
IL BRACCIO DI FERRO
Il problema è che il braccio di ferro non è finito. Anzi. Il ministro resta piantato sulla trincea di un rapporto deficit-Pil al'1,6-1,7%. Linea apprezzata dal Quirinale che non vuole sforamenti eccessivi dei vincoli di bilancio. Di Maio e Salvini, invece, vogliono arrivare al 2 per cento e anche sforarlo per rastrellare le risorse con cui realizzare le riforme di bandiera. Quelle utili per presentarsi alle elezioni europee di maggio con buone probabilità di successo: le pensioni e il reddito di cittadinanza, la riforma della legge Fornero, la flat tax per gli autonomi. Roba da decine di miliardi. E un eventuale scontro con Bruxelles verrebbe usato dai due leader come una medaglia da appuntare sul petto in vista di una campagna elettorale giocata contro gli euroburocrati e le élite continentali. Così l'assedio al ministro è destinato a proseguire. E ieri il responsabile dei rapporti con il Parlamento, il grillino Riccardo Fraccaro, ha riunito i sottosegretari in una riunione sulla legge di bilancio per dimostrare che la maggioranza, anche plasticamente, è compatta nel pressing su Tria. Rispetto a Di Maio, però Salvini è un passo avanti. In casa leghista si dà per certo il via libera del ministro dell'Economia alla riforma della previdenza con quota 100 e 62 anni per andare in pensione. Tant'è che al contrario del leader grillino, il capo lumbard è decisamente più cauto. Con la riforma della legge Fornero riuscirà a parlare al suo elettorato, soprattutto al Nord. E si accontenta di sommarci la flat tax per gli autonomi: del taglio dell'Irpef se ne riparla nel 2020. «Tria può dormire sonni tranquilli, un compromesso si trova», sintetizza il sottosegretario Giancarlo Giorgetti.
Di Maio, che ieri sera è partito per una missione in Cina lanciando l'ultimatum-avvertimento al ministro economico, invece continua a sbattere contro il muro alzato dal Mef. È furioso, l'altra sera Tria gli ha proposto di aggiungere un miliardo a Rei, il reddito di inclusione voluto da Renzi. E comincia a essere allarmato. Perché a gennaio partiranno le pensioni di cittadinanza a 780 euro, ma senza il reddito per i 5 milioni di poveri (che vorrebbe far partire a maggio) le elezioni europee potrebbero andare male. E perché i parlamentari sono in rivolta. dopo il summit sulla manovra, gli esponenti grillini riuniti in un ristorante romano, non sono andati per il sottile. Le frasi più gettonate: «O si fa il reddito, oppure Tria se ne va». «Tria deve fare ciò che diciamo noi. Ha aderito a un contratto di governo, non ha acquistato un pacco a scatola chiusa». «Non siamo stati eletti per difendere lo zero virgola dei parametri europei». «Senza reddito alle elezioni la Lega ci asfalta». E via di seguito. è scattata l'idea di raccogliere le firme per un documento contro il ministro. Il malumore è crescente: dopo la cena di Salvini con Berlusconi domenica ad Arcore, qualcosa si è incrinato. E Di Maio, che al contrario del capo leghista non ha l'exit strategy delle elezioni anticipate in primavera (la prossima volta toccherà a Di Battista) , è determinato a ottenere tutto e subito. E a mettere i bastoni tra le ruote del Carroccio. Così in casa 5stelle si infila un dito negli occhi dei leghisti rilanciando il taglio delle pensioni più elevate. E soprattutto viene ribadito il no al condono fiscale: «La soglia di un milione di euro è troppo alta, favorisce i furbi. Al massimo si può arrivare a 100-200 mila euro in modo da mettere una pietra sopra all'evasione di necessità». Con una subordinata: se non verrà cancellato anche il contenzioso penale, i grillini potrebbero accettare di alzare la soglia sotto la quale si potrà accedere alla pace fiscale.
Alberto Gentili