ROMA «Una nota al Def non coraggiosa, e cioè e senza reddito di cittadinanza, pensione di cittadinanza, quota 100-Fornero e risarcimento dei truffati dalle banche non avrà i voti del M5S». A sera, Luigi Di Maio detta le condizioni pentastellate. E sono condizioni pesanti. Domani scade il termine per presentare la nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza. Sono ore di contatti febbrili nel governo. E di un braccio di ferro duro e feroce. Da una parte il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, dall'altra Di Maio e i 5stelle, appunto. In disparte, sostanzialmente appagato, Matteo Salvini.
Di Maio, ieri sera, ha riunito i ministri e i dirigenti pentastellati. Una sorta di gabinetto di guerra per studiare l'ultima offensiva con cui provare a convincere Tria a cedere. Il leader 5stelle ha già utilizzato tutte le armi a sua disposizione: dalla minaccia di sfratto per il responsabile dell'Economia (rientrata), al tiro incrociato contro la squadra di tecnici che in via XX Settembre coadiuvano il ministro. Ma Tria, sostenuto dal Quirinale, finora ha concesso poco: teme una nuova tempesta sui mercati finanziari, con conseguente impennata dello spread che vanificherebbe gli sforzi per trovare risorse e coperture di bilancio.
Così il ministro dell'Economia resta in trincea. Tria era partito da un rapporto deficit-Pil all'1,6%, già accettato informalmente da Bruxelles in quanto in grado di assicurare un leggero calo del debito e del deficit strutturale. Poi, sotto il pressing di Salvini e Di Maio, si è spinto a ipotizzare un 1,8%, pari a 3,4 miliardi in più. E adesso offre a 5stelle e Lega l'1,9% che garantirebbe ancora una minima traiettoria discendente del debito, ma un rialzo del deficit strutturale. Oppure il 2%, a condizione che i 4 decimali (pari a 6,8 miliardi) oltre all'1,6% siano destinati a investimenti in grado di generare crescita (argomento abbastanza convincente per Bruxelles). E non in spese correnti (per di più assistenziali) come il reddito di cittadinanza.
«ABOLIREMO LA POVERTÀ»
Il problema è che Di Maio non arretra. Per il vicepremier il varo della sua riforma di bandiera è ormai una questione di vita o di morte. Senza il reddito di cittadinanza prima delle elezioni europee di fine maggio, teme un calo dei consensi. Così Di Maio ha detto di voler fare come il presidente francese Macron, spingendo il deficit-Pil al 2,8%. E ieri sera ha ripetuto ai suoi: «Il reddito si farà a partire da metà marzo e si farà in deficit. Noi non arretriamo di un passo e Tria dovrà accettare». E prima, a Porta a Porta, aveva affermato: «Non vogliamo far saltare i conti, saremo responsabili. La Francia però ci insegna che i dogmi dell'austerità sono superati. Vogliamo abolire la povertà e non guardiamo ai numerini, ma ai cittadini: la mia non è una sfida, è un'esigenza».
Che questa sia la linea è confermato dalle parole del portavoce del governo, Rocco Casalino: «Per noi il reddito di cittadinanza è fondamentale. L'Italia ha oltre 1.700 miliardi di Pil e stiamo parlando di 10 miliardi. E' come se un padre che guadagna 1.700 euro al mese dicesse: No ho 10 euro per le medicine di mio figlio. Una cosa inaccettabile». E tornando a inquadrare nel mirino i tecnici del ministero dell'Economia: «Sono così intoccabili i burocrati? Sicuramente ci sono uomini di Stato che fanno molto bene il loro lavoro. Lo fanno tutti? Al Mef non devono dormire la notte perché ci sono italiani che non hanno i soldi per mangiare». Un nuovo ultimatum a Tria, insomma. E domani, al ritorno di Giuseppe Conte da New York, la decisione. In extremis. Con Salvini sicuro di avere in tasca che le riforme richieste: pensione a quota 100, la flat tax per le partite Iva, il taglio per le imprese dell'Ires al 15%, la pace fiscale. Ma qui c'è il problema dei 5Stelle che non vogliono condoni.