MILANO Chi viaggiava sul ponte Morandi è stato «utilizzato, a sua insaputa, come strumento per il monitoraggio dell'opera» da parte di Autostrade. Perché «pur essendo a conoscenza di un accentuato degrado» delle parti portanti del viadotto, la società «non ha ritenuto di provvedere, come avrebbe dovuto, al loro immediato ripristino» e per di più «non ha adottato alcuna misura precauzionale a tutela» degli automobilisti.
«MANCANZA DI CURA»
La commissione ispettiva del Mit, presieduta dall'ingegner Alfredo Principio Mortellaro, nominata dal ministro Danilo Toninelli subito dopo il crollo del 14 agosto, ha completato la sua relazione e tratto le conclusioni. Ovvero che la concessionaria «non si è avvalsa dei poteri limitativi o interdittivi regolatori del traffico» e non ha «eseguito conseguentemente tutti gli interventi necessari per evitare il crollo verificatosi». E fornisce una prima risposta sui possibili motivi della tragedia: «Si ritiene più verosimile che la causa prima» del collasso del viadotto «non debba ricercarsi tanto nella rottura di uno o più stralli, quanto in quella di uno dei restanti elementi strutturali». Conclusioni da cui Autostrade prende le distanze - «mere ipotesi», precisa in una nota - e risponde punto per punto, a cominciare dalla «contestata decisione di non chiudere al traffico: non sussistevano le condizioni di rischio che la giustificassero sulla base delle analisi e dei monitoraggi eseguiti». Che secondo la commissione del ministero erano quantomeno carenti. In primo luogo, sostengono i tecnici, la valutazione di sicurezza del viadotto Polcevera richiesta ad Autostrade «non esiste, non essendo stata eseguita». Poi la concessionaria «minimizzò e celò» allo Stato «gli elementi conoscitivi» che avrebbero permesso agli organi di vigilanza di dare «compiutezza sostanziale ai suoi compiti». Quindi la «mancanza di cura» durante la posa in opera degli elementi di sostegno dei carroponti potrebbe aver contribuito al cedimento. «La procedura di controllo della sicurezza strutturale delle opere d'arte documentata da Autostrade, basata sulle ispezioni, è stata in passato, ed è tuttora inadatta al fine di prevenire i crolli e del tutto insufficiente per la stima di sicurezza nei confronti del collasso», conclude il Mit. Accuse alle quali la concessionaria replica precisando che «lo stato di conservazione e rischio del ponte sono stati fatti con tutta l'accuratezza tecnicamente possibile», che il traffico non è stato chiuso poiché non sussistevano condizioni che lo «giustificassero sulla base delle analisi e dei monitoraggi eseguiti». E i test, aggiunge la società, «sono stati accurati, di più tecnicamente non si poteva fare». Il progetto di manutenzione, «eseguito dagli ingegneri di Spea ma verificati anche da tecnici esterni e dal Provveditorato e dal Ministero, non ha fatto emergere allarmi da parte di nessuno». Insomma, non c'è stata alcuna «minimizzazione», per aumentare la sicurezza la concessionaria ricorda di aver speso «circa 9 milioni di euro negli ultimi tre anni e che nel periodo 2015-2018 sono stati realizzati sul ponte ben 926 giorni di cantiere, con una media settimanale di cinque giorni su sette».
«VOGLIAMO LA VERITA'»
Botta e risposta di fronte ai quali i familiari delle 43 vittime hanno una sola richiesta: «Diteci la verità». Ieri mattina hanno partecipato alla prima udienza dell'incidente probatorio sui resti del viadotto: agli esperti tocca il compito di analizzare e descrivere le diverse parti del ponte ancora in piedi e catalogare il materiale potenzialmente utile ai fini dell'indagine. «Salvo sorprese o eventuali proroghe, le demolizione del ponte inizierà non prima di dicembre», spiega l'avvocato Andrea Martini. Nell'aula bunker c'era anche Pablo Pastenes Rivera, figlio di Juan Carlos Pastenes e Nora Rivera, i coniugi di origine cilena morti nel disastro: «È stato molto pesante vedere gli indagati oggi. Ma credo nella giustizia e spero che ciò che è accaduto faccia sì che non capiti più in futuro».