L'immobilismo non paga. Anzi, ci costa un sacco di soldi. Dal ponte di Genova alla scala mobile della metropolitana di Roma, dalla condizione di strade e autostrade a quella di ferrovie e treni regionali, senza dimenticare porti e retroporti, è evidente che le infrastrutture in Italia sono in uno stato pietoso. Solo che non si vede nessuna svolta, nemmeno di fronte all'emergenza. Come dimostrano le difficoltà ad approvare il decreto per avviare la ricostruzione del ponte Morandi, il problema è duplice: adeguare le infrastrutture esistenti, costruite con materiali e tecniche ormai superate dalle nuove tecnologie oltre che essere consumate dal tempo (anche se l'Ocse certifica che spendiamo 15 mila euro per chilometro per la manutenzione delle infrastrutture stradali), e costruirne di nuove. Il punto è che mancano gli investimenti, nonostante che secondo Deloitte, l'indice di dotazione infrastrutturale dell'Italia sia pari a 0,161 rispetto ad una media europea che è di 0,022. Solo per fare un esempio, la nostra rete autostradale è di 6.700 chilometri, mentre Germania e Spagna ne hanno 14.000 e la Francia 11.400. Stessa cosa per le ferrovie: i nostri 923 chilometri sono assai meno di quelli tedeschi (1.285), francesi (1.896) e spagnoli (2.056). Anche quando veniamo interessati da infrastrutture di collegamento internazionale (come nel caso della TAP e della TAV Torino-Lione) andiamo più lenti degli altri, per eccesso di burocrazia e per i troppi poteri di veto, che sono l'altra faccia della medaglia della indecisione della politica nazionale. In sintesi, dopo una paralisi che dura da un quarto di secolo, servono decine di miliardi per metterci in pari. Anche perché Bruxelles, con il rapporto Transport Scoreboard, ci posiziona diciassettesimi in Europa, visto che stiamo messi male su tutto. In particolare sui porti, con un pesante effetto negativo sull'economia. Eppure abbiamo 8.000 chilometri di costa, una posizione strategica e una lunga tradizione marittima. Prendete il caso delle crociere a Venezia, dove c'è uno stallo che dura dal 2013, quando fu varato un decreto che prevedeva di trovare una via alternativa al canale della Giudecca per il passaggio delle grandi navi. Concretamente, l'alternativa non c'è ancora e nel frattempo le compagnie si sono autolimitate. Risultato? Dopo cinque anni si riscontra un calo di 400 mila passeggeri e del 15% degli arrivi, con un effetto negativo per tutto l'Adriatico, che ha perso 300 mila passeggeri. Secondo uno studio diffuso dall'associazione dell'industria crocieristica (Clia), l'economia veneziana ne ha risentito per almeno 155 milioni, senza considerare l'indotto sul territorio e l'Italia intera, che dall'arrivo delle navi a Venezia incassa 410 milioni l'anno. La cosa più grave è che dopo un infinito dibattito, lo scorso novembre i vari attori, istituzionali e imprenditoriali, hanno trovato una soluzione ma il nuovo governo non si è ancora pronunciato. Così tutto è fermo, e intanto passeggeri e soldi se ne vanno. Il problema è che senza infrastrutture non c'è crescita economica, né sviluppo sostenibile. Un report un pò datato di Confcommercio rivelava che dal 2002 al 2012 il deficit infrastrutturale dell'Italia ci era costato almeno 24 miliardi. Nel frattempo, tutto è rimasto fermo e quel costo può solo essere aumentato. L'immobilismo non paga. (twitter @ecisnetto)