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Data: 08/12/2018
Testata giornalistica: Il Messaggero
Assenze record: Atac non può licenziarla

In poco più di due anni aveva accumulato 157 giorni di assenza per brevi periodi di malattia, comunicati all'ultimo minuto e quasi sempre a cavallo di weekend e festività. Per questo motivo, una autista dell'Atac era stata licenziata a causa dello scarso rendimento che avrebbe creato un disservizio all'azienda. Ora, però, la Cassazione ha stabilito che la donna possa tornare al lavoro. Ribaltando la sentenza dei giudici d'appello, gli ermellini hanno dato ragione alla dipendente Atac, annullandone il licenziamento. Per la Corte, infatti, la tutela della salute è un valore «preminente» e il datore di lavoro non può invocare lo «scarso rendimento» come giustificato motivo di allontanamento, se il numero totale delle assenze non superi quello previsto dalla legge e dal contratto collettivo.
LE ASSENZE
L'azienda di trasporto pubblico aveva licenziato la conducente perché, comunicando «all'ultimo momento» i giorni di malattia, avrebbe creato un «obiettivo disservizio» all'Atac, vista la difficoltà di reperire in poco tempo i sostituti per coprire il turno. Due anni fa, nel 2016, la donna aveva fatto ricorso al giudice del lavoro, che in primo grado le aveva dato ragione. Lo scorso anno, però, la sentenza era stata ribaltata in appello: i magistrati avevano dichiarato la legittimità del licenziamento, riconducendolo proprio alla «scarso rendimento» della dipendente. Ora, la decisione di secondo grado è stata annullata. La battaglia giudiziaria dell'autista, però, non è ancora finita: la Cassazione ha disposto un nuovo processo d'appello, che tenga conto dei rilievi mossi dagli ermellini. «La non utilità della prestazione per il tempo della malattia è prevista e disciplinata» dalla legge e dalla contrattazione collettiva - sottolinea nella sentenza la sezione Lavoro della Cassazione - «in tal senso, mentre lo scarso rendimento è caratterizzato da inadempimento, pure se inconsapevole, del lavoratore, non altrettanto può dirsi per le assenze dovute a malattia». Per i supremi giudici, «solo il superamento del periodo di comporto - cioè il periodo massimo di assenza per malattia previsto dal contratto - in un'ottica di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alla proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l'occupazione) è condizione sufficiente a legittimare il recesso» e la perdita del posto.

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