Prima il balcone pieno. Poi il balcone vuoto. Prima l'onnipresenza, poi l'assenza. Prima l'«aboliremo la povertà», poi il «rivolgetevi a Conte». La bilancia di Di Maio ha funzionato così. Ma nell'esserci e non esserci, il dilemma Luigi è riassumibile in una domanda semplice: perché perdere tanto tempo in una guerra improbabile, per arrivare alla fine a un risultato prevedibile, ovvero una non vittoria mascherata da pareggio?
Di Maio in questa partita multipla e intrecciata ha perso con Draghi che il 25 ottobre ha detto «l'Italia è fra le incertezze per lo scenario dell'eurozona» e il vicepremier gli ha replicato il giorno successivo: «Mi meraviglia che un italiano si mette ad avvelenare il clima». Poi però Draghi s'è impegnato per il buon senso e Luigi ha lasciato fare a chi se ne intende più di lui. «La manovra non la scrivono gli euroburocrati» - altro proclama del capo pentastellato - e invece sì. Era partito con grande sprint il giovane di Pomigliano, ma presto è rimasto a corto di fiato. E ha dovuto chiudere il balcone. «Non arretreremo di un centimetro», proclamava, ma tra i due Don Chisciotte il primo a cedere è stato lui, rinunciando a 2 miliardi per il reddito di cittadinanza. E siccome ogni giornata è «una giornata storica» nell'enfasi del personaggio, quella di ieri lo è stata come le altre per Luigi. «A Giuseppe Conte va il mio plauso per lo straordinario lavoro e il risultato portato a casa in Europa». Complimenti a Conte ma soprattutto a chi ce lo ha messo (l'auto-incensamento va di moda anche nella neo-politica) e Di Maio sembra superare nei toni della «vittoria» (neanche un pochino mutilata?) Armando Diaz, a sua volta campano, cioè quello della Grande Guerra. Il generale Luigi esalta il «coraggio e la determinazione» mostrata «a testa alta» in questa somma impresa e «senza mai indietreggiare» sul «delicato» fronte europeo e soprattutto «senza tradire gli italiani».
LA MOSSA
Però, nonostante la pienezza del trionfo, Di Maio al Senato con Conte ieri non è andato a intestarsi il proclamato successo, e chissà se ha fatto mancare la sua presenza per imbarazzo (il «non abbiamo rinunciato a nulla» nella manovra non è posizione facile da sostenere) o per magnanimità (lasciare il palcoscenico tutto per il premier-mediatore). Di sicuro il vicepremier giallo, come quello verde, ha battuto in ritirata durante l'euro-battaglia perché impaurito di conseguenze non calcolato. Aveva sottovalutato al principio gli effetti di una procedura d'infrazione sul debito: il crollo delle Borse, l'impennata dello spread, lo schizzare verso l'alto dei tassi d'interesse. Poi i competenti (la competenza non era quella che non valeva niente perché uno vale uno?) hanno spiegato al leader grillino che doveva uscire dallo schermo perché il film potesse avere un (relativo) lieto fine, e così è stato.
La Ue amara di Salvini che tenta il riscatto contro i duri di Bruxelles
Minaccioso, aggressivo, lieto di sembrare truce. StraSalvini modello Rodomonte. Aggressivo e inarrestabile. «Tiriamo e tireremo dritto, vedrete», il suo grido di battaglia del 10 ottobre, «e il 2,4 della manovra non si cambia». Poi è andata come è andata, e guarda caso ieri da Mattarella sul Colle, per gli auguri natalizi ma soprattutto per celebrare e per celebrarsi dopo l'accoro con la Ue l'unico che mancava era proprio Salvini. Che non riesce a dissimulare totalmente l'esito della campagna d'autunno del sovranismo: dovevano andare per suonarle e furono suonati. Ma si va avanti, e il leader leghista se ne infischia di essere incappato nel Momento Tsipras - quello in cui ci si sottomette alla forza sia pure declinante di Bruxelles - e continuerà a godersi il suo momento Salvini. Tirando la palla più in là. «Come la Ue vuole tenere sotto controllo il nostro bilancio, sappia che anche noi terremo sotto controllo quello Ue, e il nostro voto quel bilancio, se non cambia, non ce lo avrà!».
Le trattative con Bruxelles hanno dimostrato a Salvini che andare contro l'Europa è coerente con il programma elettorale della Lega, ma c'è buona parte d'Italia, anche quella che si riconosce nel Carroccio, che non ha trovato la manovra così com'era conveniente agli interessi dell'Italia. Chissà se dunque potrà valere almeno come un romanzo di formazione, e di crescita politica e personale, per Salvini, tutta questa vicenda a dir poco avventurosa durata mesi e mesi e in cui il realismo s'è alla fine imposto sul donchisciottismo.
LA VENDETTA
Rispetto a Di Maio però Salvini ha in mano una buona carta che può giocarsi nei confronti dell'Europa rivelatasi matrigna (perché ha riscritto la manovra) ma anche a suo modo bonaria (ha evitato di imporci le sanzioni). La carta è quella delle Elezioni europee, ovvero - nel ragionamento di Salvini - se Bruxelles ora fa il bello e il cattivo tempo, quando ci saranno i sovranisti in massa nell'Europarlamento lo apriranno come una scatoletta di tonno e nessuno potrà concedersi più questo strapotere di vita o di morte contro l'Italia e le altre nazioni.
Intanto, sparita dall'orizzonte la Flat Tax, la Lega rinuncia a 2 miliardi per la sua riforma bandiera, la quota 100. E così, Ue amara per Matteo. Che si piega ma non si spezza: «Nessuno al governo si è calato le braghe». Però se le sono calate ancora meno Juncker, di cui il leader leghista diceva: «Con gli ubriachi non parlo», e Moscovici, di fronte al quale Salvini alzava le spalle: «La sua lettera contro l'Italia? L'unica lettera che aspetto è quella di Babbo Natale», anche se notoriamente Santa Claus le missive le riceve e non le manda.
Sotto la pressione dei mercati e del Nord produttivo, anche il Capitano è dovuto arretrare. No, non spezzeremo le reni a Bruxelles. Almeno per il momento.