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Data: 09/03/2019
Testata giornalistica: Il Messaggero
Di Maio teme l'ok ai bandi: tenuta dei gruppi a rischio in caso di crisi, mai col Pd. Lega, il fronte del Nord: «Matteo stacca la spina» Lui: no, con FI ho chiuso

Lo ripetono tutti, come una litania: «Il M5S non è mai stato così compatto intorno a Luigi». In effetti, Roberto Fico è in asse, Beppe Grillo ha anche condiviso il post sull'«irresponsabilità» di Salvini a scatenare la crisi (all'appello, manca sempre Di Battista, però). L'altra sera, poi, sono stati proprio i gruppi parlamentari a dare mandato pieno a Di Maio per ribadire il «no» alla Tav. E oggi a Milano questa coesione sarà plastica: il capo politico è atteso alla due giorni di Rousseau-Lab organizzata da Davide Casaleggio in vista delle Europee. Il problema però è ancora sul tavolo. E Di Maio teme che, a seconda del punto di caduta della trattativa, l'unità di queste ore potrebbe sgretolarsi con estrema facilità. Anche ieri, dopo la conferenza stampa a Palazzo Chigi, ha passato la giornata in stretto contatto con il premier Conte. Gli preme un fatto non proprio secondario che alla fine si riesca a trovare un'exit strategy per separare le manifestazioni d'interesse dal via ai bandi per i lavori. Ammesso che poi su questa soluzione si trovi un accordo con Matteo Salvini, bollato dai vertici grillini come «nuovo Renzi, visti gli atteggiamenti spavaldi delle ultime 24 ore».
LA BASE
Di Maio non vuole rompere e far cadere il governo, deve innanzitutto portare a casa il Reddito di cittadinanza ancora in corso di conversione alla Camera. Ma in queste ore ragiona su tutti gli scenari possibili. Il peggiore è legato alla partenza dei bandi da parte di Tel, magari con l'impegno scritto del governo a ritrattare l'opera in un secondo momento. In quel caso i distinguo sarebbero dietro l'angolo. Da Grillo a Fico, silente ma attento allo sviluppo della situazione, tanto che ne ha parlato giovedì a pranzo con il presidente Conte. La tensione rimane altissima dentro la maggioranza. I rapporti tra «Matteo» e «Luigi» sono ai minimi storici. I rispettivi staff escludono un incontro a Milano nel week-end, anche se all'ultimo momento potrebbe esserci uno spiraglio per cercare una soluzione. D'altronde proprio all'ombra della Madonnina presa forma il contratto di governo, ora messo seriamente a rischio dalla Tav. Il vicepremier pentastellato ha due sicurezze in queste ore: che Salvini alla fine accetterà una soluzione mediana perché, come ripete spesso, «Matteo non vuole tornare tra le braccia di Berlusconi». Un'ipotesi che prenderebbe quota in caso di ritorno alle urne. Anche perché, dal fronte M5S viene escluso, in caso di caduta dell'esecutivo, una maggioranza alternativa con il Pd, seppur guidato da Nicola Zingaretti.
Ecco perché l'uscita della senatrice Paola Nugnes che apre a questa ipotesi viene subito stoppata come iniziativa personale della dissidente. Nonostante la Nugnes sia data - nelle geografie giornalistiche - vicina all'ala di Roberto Fico. La strada dell'accordo dunque si regge su un equilibrio sottilissimo. Da una parte c'è la consapevolezza «che non esistono piani B con i dem, che rimangono gruppi soprattutto al Senato di forte imprinting renziano», ragiona il vicecapogruppo M5S Francesco Silvestri. Dall'altra Di Maio si trova nuovamente sott'esame: la sua leadership passa dalla qualità dell'accordo che uscirà fuori nelle prossime ore. Il problema come sempre sarà comunicativo: in caso di intesa con Salvini per frenare o meglio bloccare i bandi, slegandoli dalle manifestazioni d'interesse, non dovrà passare come l'ennesima vittoria della Lega di questi mesi. Le contestazioni sono dietro l'angolo. Così come le Europee.

Lega, il fronte del Nord: «Matteo stacca la spina» Lui: no, con FI ho chiuso

Matteo Salvini non ha mai valutato la rottura. E continua a non valutarla: «Crisi? Nessuna crisi!», ripete come un disco e sembra cantare un vecchio ellepì dei Supertrump (intitolato «Crisis? What Crisis?»). E tuttavia, c'è un Carroccio esasperato che sobbalza, che scricchiola e che non vuole sbandare. Un convoglio in queste condizioni può spingere il conducente anche su un tragitto che non è quello previsto e lungo il quale aveva accumulato consensi e colto qualche successo (l'ultimo: la legittima difesa) grazie alla docilità del compagno di strada.
Stiamo dicendo che Salvini strapperà con Di Maio, perché così gli impongono i suoi? Nient'affatto, visto che la Lega è un partito leninista in cui il capo non si discute, sopratutto quello che ti ha portato dalle polveri del 4 per cento all'altare (virtuale) dell'oltre 30 per cento. Ma un capo che è un capo sa capire il momento, non è sordo al rumore delle truppe - come insegna la fortuna dei capitani di ventura medievali, e Matteo è il Capitano - e non agisce soltanto sulla base della propria opinione ma facendo prevalere l'intelligenza delle cose. Anche quando queste confliggono con le convinzioni di partenza e con la comodità di un'alleanza o almeno di un rapporto contrattuale. Non è che Giorgetti o Garavaglia o tanti altri e non solo quelli della vecchia Lega vogliano tornare con Berlusconi (che al solo sentirlo nominare Salvini s'irrigidisce) o almeno non è unicamente questa «nostalgia del passato» (così la chiama lui) a stravolgere la mappa del segretario del Carroccio. Ci sono invece dei dati di fatto squadernati in tutta la loro evidenza sul tavolo di Salvini e che un politico professionale, realista e pragmatico come lui, non può non vedere.
I DATI DI FATTO
La stanchezza dell'esercito che non ne può più dei 5 stelle («Matteo, sono la nostra zavorra, la palla al piede, la camicia di forza...») è un elemento a cui si aggiunge nel Nord la base leghista, fatta di piccoli e grandi imprenditori, professionisti e una vasta platea di amministratori, che fibrilla e rumoreggia. E questo è l'asse portante della Lega, quello su cui il Capitano ha costruito la sua leadership, e se l'asse s'incrina va comunque raddrizzato. E va bene non parlare di fronda, ma Luca Zaia, insieme a Attilio Fontana, pur sempre un leghista di derivazione Maroni e di vecchio rito ambrosiano, sono diventati i collettori del malcontento di larga parte del Settentrione anti decrescita felice e insofferente dell'ideologia del No di marca grillina. I governatori del lombardo-veneto sono una spina nel fianco a cui Salvini ha dato risposte più simili a rinvii.
E il caso dell'autonomia, che sembrava cosa fatta e che si sta aggrovigliando nelle sue spire da SpaccaItalia, è emblematico di una interlocuzione interna alla Lega sempre più difficile («Matteo, i nostri cittadini si sentono traditi dalle promesse», gli ripetono ossessivamente i due presidenti regionali) e sempre più condizionata dagli stop di Di Maio. E ci sono centri di potere che spingono su Giorgetti perché il quadro cambi. E c'è tutto un contesto mutato, da dentro e da fuori, che mette in crisi il matrimonio del Salvimaio e anche se il capo leghista a questo sodalizio continua a tenere - come capita nei matrimoni d'interesse - nel bilancio dei pro e dei contro egli sta vedendo crescere questi ultimi. Ma esistono anche matrimoni che si salvano per miracolo o per finzione.

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