ROMA Di nuovo, e ieri per ben due volte, la maggioranza giallo-verde in Senato è finita sotto il filo dei numeri. Ossia non c'è più. Era stato così l'altro giorno per il voto su Salvini, e il salvataggio del ministro per il caso Diciotti è stato possibile solo grazie al voto di un senatore del movimento degli italiani all'estero. E adesso, di nuovo. Le due mozioni (del Pd e di Forza Italia) di sfiducia contro Toninelli sulla gestione della vicenda Tav sono state battute ma la maggioranza assoluta a Palazzo Madama è di 161 voti e M5S più Lega, nella difesa del ministro, si sono fermati più in basso. 159 voti in favore di Toninelli, 102 per la sfiducia, 19 astenuti. Questo nel primo voto, quello sulla mozione dem e i 19 astenuti sono di Fratelli d'Italia e di alcuni di Leu. Contro il documento forzista si sono espressi 157 senatori, 110 i favorevoli e 5 astenuti (del Misto, area sinistra). E insomma, Toninelli salvo. Ma salvare un ministro non amato dalla propria maggioranza, e perfino in parte dal proprio partito, si è rivelata impresa ardua dal punto di vista aritmetico. Che naturalmente è politico. Lo scollamento della mancata quota 161 è evidente. E potrebbe rivelarsi una catastrofe, se dovesse ripetersi su temi sensibili e fondanti dell'attuale governo che presto arriveranno all'esame di Palazzo Madama: a cominciare dal Decretone con dentro Quota Cento e Reddito di cittadinanza, per non dire della Legittima difesa (martedì voto finale, e Di Maio è preoccupatissimo per la tenuta dei suoi), dello SbloccaCantieri su cui la tensione M5S-Lega è già salita assai e poi sul Def.
Solo Centinaio, alla fine, di corsa, ieri tra i ministri leghisti ha votato per Toninelli. La presenza del Carroccio è mancata fino all'ultimo minuto, nessun ministro in aula - solo Conte, Di Maio e la Lezzi a proteggere Toninelli - e assenze di peso, visti i numeri risicati su cui può contare la compagine governativa giallo-verde in quest'aula, sui banchi della Lega. Sei senatori mancanti (ma Bossi perché sta male e la ministra Stefani perché le è morto il papà): hanno votato in 52 su 58. E svariati presenti, tra un sussurro e una confidenza ai colleghi e ai curiosi, ripetevano per lo più: «Ci tocca salvare quella frana di Toninelli, così vuole il Capitano». Svogliati, già scollati dai grillini, insomma. Ma Salvini - la cui assenza al fianco di Toninelli è stata macroscopica - minimizza su di sé e su i suoi: «Le assenze non hanno alcun significato politico». Di fatto, però, «la maggioranza non ha più i numeri», esulta la capogruppo azzurra Anna Maria Bernini. E così Maurizio Gasparri: «Il loro logoramento ormai è evidentissimo». Lo dicono pure quelli del Pd.
IL FILO SOTTILE
La mattinata del voto è stata anche agitata. Con il senatore forzista Francesco Giro che a un certo punto, in risposta ai grillini che dicevano «bunga bunga» su Berlusconi, ha fatto il gesto delle manette (il riferimento è al caso De Vito) e la presidente Casellati è dovuta intervenire. Intanto le due mozioni di sfiducia hanno avuto entrambe 104 voti dai pentastellati. Dunque 2 grillini (il gruppo è di 106) non hanno votato perché in missione. Sei più due fa 8: e alla maggioranza - che sa di essere sul filo in Senato - se togli 8 voti maggioranza non è più e così è stato. Sulla mozione Pd sono stati 15 i senatori di Fratelli d'Italia ad astenersi, facendo in questo modo abbassare il quorum, mentre La Russa lancia un messaggio a Salvini: «Proporrò una mozione di sfiducia su tutto il governo». Così, tanto per vedere l'effetto che fa. Uno dei più attenti uomini-calcolatrice del Senato, il forzista Malan, spiega: «Meno otto voti è un pericolo per loro molto forte. I margini si sono ridotti anche perché Nugnes, Fattori e La Mura non ubbidiscono più al vertice 5 stelle. E nel voto per Salvini, loro tre hanno detto sì al processo e sette loro colleghi si sono astenuti».
C'è dunque una carenza politico-aritmetica e reciproche rappresaglie. Ai voti contrari e agli astenuti pentagrillini sul Capitano, s'è risposto con le assenze pesanti. E il palottoliere, a dispetto della sicurezza ostentata, non lascia tranquilli i padroni del governo.