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Data: 03/04/2019
Testata giornalistica: Rassegna.it
Salario minimo, più rischi che opportunità. In Italia i contratti collettivi nazionali offrono una copertura che arriva al 90 per cento. Le cause del lavoro povero sono altre: precarietà, part-time obbligatori, contratti pirata e illegalità. Un'inchiesta di Rassegna e RadioArticolo1

Lo conferma anche l’ultimo report dell’Etui, l’istituto di ricerca della Ces, il sindacato europeo (Benchmarking Working Europe 2019): i bassi salari sono un problema che riguarda ormai quasi l’intero continente. Gli unici Paesi che, dopo la crisi, hanno potuto registrare un incremento cospicuo degli stipendi sono quelli del centro ed est Europa, come Bulgaria (+87%) e Romania (+34%), che però partivano da un livello molto basso. Una zavorra pesante che frena la capacità di ripresa economica dei singoli Paesi e, soprattutto, mina alla base quel patto sociale che ha reso l’Europa un continente prospero e dove avere un lavoro garantiva generalmente una vita dignitosa. Ora non è più così: e questo sarà uno dei temi chiave delle prossime elezioni europee. Se tutti, più o meno, sono convinti che occorra migliorare le condizioni economiche dei lavoratori, le ricette proposte per innalzare i salari dei lavoratori variano non solo tra i singoli sindacati nazionali, ma tra gli stessi governi.

Uno dei temi più dibattuti in queste settimane in Italia è quello del salario minimo legale, proposto in diversi disegni di legge (ma era presente anche nel Jobs Act) e uno dei vessilli del M5S: dal “contratto” di governo giallo-verde è stato, infatti, subito trasposto nel ddl 658/2018. Nei giorni scorsi il governo Conte ha anche cercato di costruire su un salario minimo europeo un fronte comune con Macron, ma ha subito incassato il no di Angela Merkel. Il tema è dunque più spinoso di quello che sembrerebbe: cosa ci sarebbe, apparentemente, di sbagliato nel fissare una soglia “legale” minima di salario sotto alla quale non si può andare?

L'inchiesta in podcast

La questione è più complessa di quello che sembra, perché incrocia le realtà molto differenziate dei diversi mercati del lavoro, delle strutture produttive dei singoli Paesi e delle loro tradizioni sindacali. In Italia, ad esempio, Cgil, Cisl e Uil sono d’accordo nel ritenere che una misura del genere non solo non aiuterebbe una crescita dei salari, ma anzi potrebbe essere persino deleteria.

Il salario minimo legale: le perplessità della Cgil
Nel dettaglio il disegno di legge (proposto dalla senatrice Nunzia Catalfo) stabilisce una paga oraria minima di 9 euro che dovrebbe spettare a tutte le categorie dei working poors, cioè a quei lavoratori la cui retribuzione minima è inferiore al 50 per cento del salario mediano. Il punto, però, è che a differenza di altri paesi, dove le coperture dei contratti nazionali sono spesso molto basse, in Italia quasi il 90 per cento dei lavoratori è, appunto, coperto da un contratto collettivo. “Proprio per questo – dice il segretario generale della Cgil Maurizio Landini – proponiamo di rendere quei contratti erga omnes, cioè validi per tutti”. Per il segretario generale della Cgil, insomma, basterebbe recepire gli accordi interconfederali: “In questo modo, oltre al salario, anche altri aspetti come le ferie diventerebbero per legge i minimi sotto cui non si può andare, minimi stabiliti non dal Parlamento, ma dalla contrattazione tra le parti”. Il tema è quello assai noto della (mancata) piena applicazione dell’articolo 39 della Costituzione e di una legge sulla rappresentanza – sulla quale le parti hanno raggiunto da tempo un accordo – che stabilisca chi può contrattare per tutti ed eviti il proliferare di quei contratti pirata che sono tra i maggiori responsabili delle paghe al di sotto dei limiti della decenza, anche 3 euro l’ora in alcuni casi.

L’altro timore espresso dal leader della Cgil è che “se il Parlamento stabilisce un salario che prescinde dalla contrattazione, e che può essere persino più basso dei limiti contrattuali, si avrebbe una norma di legge che potrebbe finire per contrastare la contrattazione collettiva”. Se un’azienda può essere in regola semplicemente adeguandosi a una paga oraria stabilita per legge, che interesse avrebbe a firmare un contratto che, oltre a minimi presumibilmente più alti, comporta diritti e tutele, e dunque maggiori oneri per le imprese?

I sindacati non sono contrari al salario minimo, ma pensano che debba essere stabilito dai contratti, non da una legge

I sindacati non sono dunque contro il salario minimo, ma ritengono che debba essere contrattuale, cioè non stabilito da una legge (“legale”), ma da quella negoziazione tra le parti che in Italia gode ancora di ottima salute. Insomma, ha poco senso stravolgere un sistema consolidato di contrattazione per trovare una soluzione per il 10 per cento che ne è tagliato fuori. Molto più razionale fare l’inverso: cioè portare “dentro” questa quota che rimane fuori.

Un po’ di numeri
Per suffragare la propria tesi il M5S cita il fatto che nell’Unione europea su 27 Stati membri 22 hanno un salario minimo per legge. Tuttavia non si può non rilevare che i quattro, oltre all’Italia, privi di questa misura sono Svezia, Danimarca, Finlandia e Austria: paesi certamente tra i più virtuosi per il trattamento – salariale e normativo – che riservano ai propri lavoratori. Una volta tanto siamo dunque in buona compagnia. “Non a caso ciò che accomuna questi paesi – spiega Salvo Leonardi, ricercatore della Fondazione Di Vittorio della Cgil – è la grande forza associativa e di rappresentanza dei sindacati e un’altissima copertura dei contratti nazionali”. Non solo: come rileva Leonardi, in queste realtà “le soglie minime di retribuzione sono uguali o superiori a quelle dei paesi dove è in vigore il minimo legale. Interessante, da questo punto di vista, analizzare l’indice di Kaitz, che misura il rapporto tra salario minimo e il salario mediano. Ebbene, una volta tanto l’Italia è al primo posto in questa classifica, arrivando addirittura al 90 per cento.

In Italia il problema non sta nei minimi contrattuali, ma nella scarsa progressione economica degli stipendi

Mentre non si può non rilevare che persino nei Paesi più virtuosi d’Europa il livello del salario minimo è molto più basso ed è sempre sotto la soglia del lavoro considerato povero (66 per cento) e addirittura, in paesi come Germania, Regno Unito e Spagna, non raggiunge neppure il 50 per cento”. Il problema, dunque, in Italia non sta tanto nei minimi contrattuali, ma nella progressione economica degli stipendi che non partono male, ma poi si fermano. “A mio avviso andrebbe rivisto l’impianto complessivo della contrattazione che risale nelle sue fondamenta al protocollo del 23 luglio 1993 – argomenta Leonardi –. Al contratto nazionale viene riservata una funzione di mero mantenimento del potere d’acquisto dei salari, che però, in un’epoca di quasi deflazione come quella attuale, rischia di avere scarsissimi effetti sulle retribuzioni, mentre tutte le possibili dinamiche retributive sono rimandate alla contrattazione di secondo livello. Penso che una quota di queste dinamiche dovrebbe essere recuperata nel primo livello”.

Cosa c’è nei 9 euro
Se dovessero diventare minimo salariale orario per legge, i 9 euro ci collocherebbero comunque ai livelli più alti nel mondo, persino sopra la Germania (8,84) e il Regno Unito (8,79). Il rapporto col salario mediano sarebbe, infatti, dell’80 per cento, contro un’oscillazione tra 40 e 60 per cento dei paesi Ocse. Tuttavia bisogna vedere cosa c’è in quei 9 euro: sono compresi ferie, malattie, maternità e altri istituti? Un vero contratto di lavoro, cioè, non è solo paga oraria, come fosse un voucher. E c’è un’altra questione da non sottovalutare: “Nove euro più o meno corrispondono ai minimi della maggior parte dei contratti – spiega Lorenzo Birindelli, esperto di mercato del lavoro –. Tuttavia, chi lavora in maniera discontinua, i precari e i lavoratori poveri, non prende tfr, tredicesima, ferie; allora quel salario minimo legale orario, per essere davvero vicino a quello stabilito dai minimi contrattuali, dovrebbe recuperare anche quella parte di retribuzione che il lavoratore non avrà mai, essere cioè superiore ai 9 euro di cui si parla”. E poi, “attenzione – aggiunge lo studioso –, i contratti nazionali non stabiliscono solo un minimo. L’Istat, nel realizzare l’indice delle retribuzioni contrattuali, ci mostra come il primo livello di inquadramento è poco ‘frequentato’ nei contratti. Se passa la linea che basta pagare 9 euro per essere in regola, il rischio è che quei 9 euro rimangano tali per sempre, con danni incalcolabili non solo per i lavoratori, ma anche per l’erario, che sarebbe penalizzato sul piano fiscale e contributivo, incassando molto meno del dovuto. A lungo termine ci sarebbero ad esempio rischi seri per il finanziamento del sistema pensionistico”. E in aggiunta si potrebbe alimentare anche il nero e il grigio, perché il lavoratore potrebbe essere compensato con dei pagamenti fuori busta, e dunque illegali. Birindelli: “Un sistema retributivo è un organismo così delicato e articolato che appiattirlo sui 9 euro comporterebbe danni molto seri”.

Perché in Italia i salari sono bassi
Resta il fatto che in Italia l’11,7 per cento dei lavoratori sono sotto i minimi contrattuali, contro una media dell’Ue al 9,6 per cento. Il problema dell’evasione contrattuale è particolarmente rilevante in settori come agricoltura, ristorazione, spettacolo e soprattutto al Sud e nelle piccole e medie imprese. Tuttavia non si capisce perché le imprese, già abili a eludere il rispetto dei contratti collettivi – e spesso anche delle leggi –, dovrebbero invece rispettare un valore salariale stabilito per legge, perdipiù in un contesto in cui i servizi ispettivi, anche in virtù dei cospicui tagli degli ultimi anni, risultano non in grado di effettuare i necessari controlli.

Nella maggior parte dei casi il lavoro povero è dovuto alla precarietà, ai part-time imposti (soprattutto nel terziario), alle false partite Iva, al lavoro nero, ai contratti pirata. “Ma per aggredire questo segmento – riprende Leonardi –, oltre al già citato erga omnes e ai controlli, una leva importante è rappresentata dalla contrattazione inclusiva, la cui strategia è ben rappresentata nella Carta dei diritti universali del lavoro della Cgil e nella quale i sindacati hanno un ruolo importante”.

In Italia nella maggior parte dei casi il lavoro povero deriva da precarietà, part-time imposti, lavoro nero e contratti pirata

Conferma Mauro Macchiesi, segretario nazionale della Flai Cgil. In agricoltura la mancata applicazione dei contratti – e dunque delle retribuzioni – sfiora il 40 per cento dei lavoratori, “ma non capisco in cosa la situazione migliorerebbe con un salario minimo, visto che già oggi ci sono norme che vietano salari da fame, ma si continua a non far nulla, nonostante la legge sul caporalato, per combattere lo sfruttamento”. “Se penso al mio settore – aggiunge Macchiesi –, vedo che tra i problemi più gravi c’è quello dei voucher, che rappresenta lo strumento legale per evadere l’applicazione dei contratti, con una pratica di sottosalario che non solo è diffuso, ma è consentita dalla legge”.

Un altro settore afflitto da paghe base e catene di appalti che producono sfruttamento e condizioni precarie è quello della logistica. “Ma non credo – spiega Giulia Guida, al momento della nostra inchiesta segretaria nazionale della Filt e ora passata alla Slc – che il salario minimo legale rappresenti una soluzione utile. Anzi, penso che una misura del genere potrebbe persino nuocere alle pratiche contrattuali di questi anni”. Nel senso che, aggiunge la sindacalista, “nel tempo abbiamo messo in campo una strategia di contrattazione inclusiva, portando ad esempio dentro al contratto i rider e provando a limitare i casi più gravi di sfruttamento, che risulterebbe penalizzata da uno svilimento del ruolo della contrattazione che si avrebbe con l’introduzione del salario minimo. Imprenditori che con grande difficoltà siamo riusciti, grazie agli accordi, a ‘convincere’ a rispettare le regole potrebbero tornare con facilità a un trattamento elusivo dei lavoratori, non solo dal punto di vista salariale, ma anche da quello normativo e contributivo”. Infine, grazie a un sistema strutturato di relazioni sindacali, “siamo stati anche in grado di governare situazioni di crisi e processi di cambiamento”.

Il caso tedesco
La Germania rappresenta un caso di studio molto interessante. Nel Paese il salario minimo legale è stato introdotto solo nel 2015 grazie al patto di governo Spd-Cdu, dopo una lunga – quasi decennale – discussione tra i sindacati, con le organizzazioni del settore manifatturiero contrarie, perché più forti nella contrattazione, e invece quelle del terziario a favore, lamentando una forte erosione del sistema di negoziazione collettiva e dunque un costante abbassamento di salari e copertura contrattuale, che oggi ormai copre appena il 50 per cento delle lavoratrici e dei lavoratori in tutti i comparti. Si è cominciato con un valore di 8,50 euro lordi per arrivare, proprio a inizio 2019, a 9,19 euro: per capire lo scarso equilibrio che vige in Europa basti pensare che il salario minimo legale in Bulgaria è appena sopra i 3 euro. “Per fare un bilancio del salario minimo in Germania bisogna considerare tre aspetti – spiega Reinhard Bispinck, per tanti anni alla guida dell’Istituto di ricerche economiche e sociali della Fondazione Hans Boeckler vicina alla Dgb, la confederazione dei sindacati tedeschi – che riguardano gli effetti su occupazione, andamento dei redditi e politiche contrattuali. Molti economisti temevano che l’introduzione di un salario minimo legale avrebbe distrutto posti di lavoro, ma così non è stato, e anzi il mercato del lavoro si è sviluppato molto positivamente negli ultimi anni, e specialmente in quei settori dove il salario minimo ha avuto i suoi maggiori effetti. Positive anche le ricadute sulle retribuzioni, poiché il salario minimo legale ha portato a un significativo aumento dei salari orari nei decili di reddito più bassi: i principali beneficiari della misura sono stati, infatti, i lavoratori poco qualificati, quelli della Germania orientale e le donne. Anche la contrattazione collettiva non è stata danneggiata e in alcuni casi i sindacati sono riusciti a sostituire contratti collettivi molto vecchi con nuovi accordi e migliori tabelle salariali”.

Se un datore di lavoro non applica un contratto, difficile che possa agire diversamente con un salario minimo legale

Tuttavia, aggiunge lo studioso, permane un elemento di forte criticità, e cioè le numerose violazioni di legge: “Secondo i dati attuali in Germania 1,8 milioni di lavoratori guadagnano meno del salario minimo legale; registriamo una forte carenza di personale adibito ai controlli previsti dalla legge ed è proprio questa – un aumento degli organici degli ispettori – una delle maggiori rivendicazioni che i sindacati continuano oggi a portare avanti”. Questo aspetto – che riguarda persino un paese virtuoso come la Germania – conferma un dubbio legittimo: per quale motivo in Italia un datore di lavoro che già non applica contratto e varie normative dovrebbe cambiare atteggiamento con un salario minimo legale? E resta poi la grande differenza tra i due paesi: “In Germania il salario legale è stato introdotto proprio perché non abbiamo una copertura contrattuale larga come la vostra. Esiste uno strumento di ‘estensione’ del contratto collettivo che però funziona abbastanza male, perché i datori di lavoro hanno la possibilità di bloccare questa estensione. Il risultato è che solo il 2 per cento dei contratti collettivi sono davvero vincolanti. Questa norma andrebbe dunque cambiata, ma al momento non vedo spazi praticabili in questa direzione”.

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