ROMA Non accadeva da settimane, anzi mesi. Ma, almeno a parole, Luigi Di Maio e Matteo Salvini ieri hanno archiviato un pranzo di ben due ore offerto da Giuseppe Conte scambiandosi affettuosità. «Con Matteo è stato vero disgelo», ha fatto sapere il leader grillino. «Un incontro davvero cordiale, assolutamente distensivo», ha contraccambiato il capo leghista.
Dietro al tentativo di rappattumare una maggioranza sfilacciata, in scontro su tutto e per tutto, ci sono le elezioni alle porte. E c'è il bagno di realismo cui i tre sono stati obbligati il giorno prima, con il Documento di economia e finanza (Def) che ha certificato la crisi economica. Il Pil appena sopra lo zero e la flat-tax invocata dalla Lega evaporata. Ebbene, proprio perché la «situazione è critica e pesante» i giallo-verdi varano la «fase 2».
La denominazione è a uso e consumo elettorale. Un modo per dire che «d'ora in poi ci sarà il massimo impegno e la massima accelerazione delle misure a sostegno della ripresa economica». Con tanto di incontri settimanali tra premier, vicepremier e il ministro dell'Economia, Giovanni Tria. Una liturgia che, nella sostanza, dovrebbe portare a «una forte spinta» del governo sull'attuazione delle misure contenute nei decreti per la crescita e per sbloccare i cantieri (entrambi ancora in attesa di diventare operativi). E che porta con sé una promessa fatta sia da Conte che da Salvini: in autunno la flat-tax si farà. In formato mignon, per i ceti medi come vogliono i 5Stelle, ma si farà: tassa al 15% per i redditi familiari fino a 50 mila euro e con la possibilità di scegliere se godere della tassa piatta, rinunciando alle detrazioni fiscali Irpef, oppure conservare il regime fiscale precedente.
In più, premier e i vicepremier, dopo la colazione di lavoro a palazzo Chigi hanno lanciato un messaggio rassicurante ed elettorale: la riforma fiscale si farà «senza alcun aumento dell'Iva e tantomeno patrimoniali». Da vedere cosa accadrà dopo le elezioni del 26 maggio.
SUSSULTO DI REALISMO
Non è però un caso che proprio ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il leghista Giancarlo Giorgetti, abbia sposato la linea-Tria: senza aumento dell'Iva (per sterilizzarlo servirebbero 23 miliardi) non è pensabile attuare la flat-tax. Giorgetti l'ha fatto con modi felpati, com'è nel suo stile: «Vedremo con la legge di bilancio se la flat-tax si farà con l'aumento dell'Iva. Ora non si può ancora dire...». Per poi, invece, dare per certe due aliquote Irpef al 15 e al 20%: «Per ora non sono comparse, compariranno però nella legge di bilancio», quella che si scrive in autunno e viene approvata entro la fine dell'anno.
La sortita di Giorgetti non è passata inosservata a Di Maio e a Conte. In casa grillina si parla di «spaccatura nella Lega»: «Salvini si è sempre detto contrario ad alzare l'Iva, probabilmente il suo è solo equilibrismo da campagna elettorale...».
Un esercizio, per la verità, in cui si cimentano anche i 5Stelle. Conte, Di Maio e (naturalmente) Salvini hanno detto che la riforma fiscale verrà attuata. C'è chi ha parlato (il leghista) di rastrellare le risorse necessarie «grazie alla maggiore crescita». E chi, come il premier, indicando la spending review e la riforma delle agevolazioni e delle detrazioni fiscali.
MISURE INADEGUATE
Il problema (grande) è che le ricette proposte per reperire le risorse con cui finanziare la flat-tax (costo di 12 miliardi per la versione mini) non sono sufficienti. Tutti i governi (da Ciampi in poi) si sono cimentati con il taglio della spesa pubblica e ormai il fondo del barile è completamente raschiato. La prova: il governo spera di recuperare appena 6 miliardi, e in tre anni, dalla spending review. Inoltre «rimodulazione della tax expenditure» di cui parla Conte è un altra favola raccontata da anni, senza contare che sforbiciare le detrazioni e le agevolazioni fiscali Irpef (costo 54 miliardi) significa aumentare le tasse.
Da qui il realismo di Giorgetti (e di Tria) che non esclude l'aumento dell'Iva. Ma queste cose si possono dire solo dopo il 26 maggio, a urne europee già sigillate. In quel momento potrà scattare, se il governo dovesse riuscire a restare in piedi, anche il tagliando al contratto e quel rimpasto più volte rinviato.