Il governo sta promettendo nuovi tagli delle tasse ed è probabile che la stagione attuale, relativamente tranquilla, lo stia incoraggiando in questa direzione. In effetti le ragioni per tirare il respiro non mancherebbero, al termine di molti mesi di tensione. Dopo i crolli del 2018, da inizio anno Piazza Affari è teatro di uno dei recuperi più spettacolari al mondo. La produzione industriale ha smesso di scendere e negli ultimi due mesi ha dato sorprese positive, lasciando sperare che la recessione sia alle spalle. Anche lo scarto fra i rendimenti dei titoli di Stato italiani e tedeschi – sempre alto – è diventato un po’ più stabile da quando in dicembre il governo ha accettato di trovare un accordo con la Commissione europea sul bilancio. Una seconda occhiata mostra però che, sotto la superficie, continuano ad agitarsi nei mercati correnti profonde di diffidenza verso l’Italia.
Lo spread con Spagna e Portogallo resta elevato
Basta vedere come i buoni del Tesoro stiano continuando a perdere terreno rispetto a quelli di Paesi simili (e con economie nel complesso più indebitate) come Spagna e Portogallo. In confronto ai titoli a dieci anni di Lisbona, all’inizio di gennaio l’Italia doveva offrire un rendimento di 98 punti superiore (0,98% annuo) per trovare compratori; due mesi dopo il ritardo era salito a 124 punti e venerdì scorso era a 136 punti. Paghiamo oggi sul Portogallo uno spread simile a quello che pagavamo sulla Germania undici mesi fa. Quando al confronto con Madrid, lo scarto sfavore dell’Italia da inizio anno è cresciuto dai 129 punti di gennaio fino ai 146 di venerdì scorso. Lo strato di fiducia resta sottile, mentre il governo legge nella quiete di questi mesi un incoraggiamento ad andare avanti con il taglio delle tasse. Sarebbe una ragione di più per dare al mercato qualche indicazione chiara sull’entità della sforbiciata e su come finanziarla. Nel Documento di economia e finanza (Def), pubblicato la scorsa settimana, non c’è. Si moltiplicano invece le dichiarazioni di esponenti della Lega sull’ipotesi di un intervento sull’Irpef, l’imposta sui redditi delle persone fisiche, in nome di una «flat tax»: una aliquota «piatta» che riduca la pressione fiscale sulle famiglie.
La «tassa piatta» per 20 milioni di italiani
In base a quanto detto fin qui da alcuni responsabili leghisti – il sottosegretario ai Trasporti Armando Siri, il presidente della commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi – la «flat tax» avrebbe alcune caratteristiche destinate a contenerne i costi. Fra i criteri di accesso conterebbe anche il reddito familiare, non solo quello dei singoli. In secondo luogo, le famiglie sarebbero messe di fronte a una scelta: dovrebbero optare per un nuovo regime di «tassa piatta» al 15% sui redditi da lavoro, o conservare le deduzioni e detrazioni di cui godono oggi. L’offerta sarebbe riservata ai 20,6 milioni di italiani che oggi denunciano redditi fra i 15 mila e i 50 mila euro: fra loro ci sono 12,1 milioni di contribuenti fra i 15 mila e i 26 mila euro (i beneficiari del bonus da 80 euro al mese approvato dal governo di Matteo Renzi nel 2014) e altri 8,5 milioni che denunciano fra i 26 mila e i 50 mila euro all’anno. Al di sopra di loro si trovano solo poco più di altri due milioni di italiani con denunce dei redditi più alte. Nessuno sa quanto possa costare la «flat tax» data la struttura sociale del Paese, per la semplice ragione che non sono mai stati fatti calcoli su dati reali. Per il momento, nessuno ha mai chiesto agli uffici competenti di tentare una stima. Per ora non c’è nel governo la conoscenza di dettaglio che servirebbe.
Un taglio dell’imposta del 40%
È possibile però tentare alcune stime sulla base dei dati disponibili del Def e del Dipartimento delle Finanze. L’anno scorso l’Irpef ha garantito allo Stato 194,3 miliardi su un totale di 480,5 miliardi di entrate tributarie. Quella tassa è il cuore delle entrate dello Stato, la locomotiva che permette alla scuola o alla sanità pubbliche di andare avanti. E quei 20,6 milioni di italiani fra i 15 mila e i 50 mila euro di reddito, il ceto medio italiano, sono i contribuenti essenziali all’intero sistema: da loro arrivano circa 110 miliardi l’anno di gettito Irpef, un euro ogni quattro delle entrate tributarie dello Stato. Una «flat tax» al 15% rappresenta un taglio effettivo dell’imposta di circa il 40% se si ipotizza che per quei venti milioni di italiani l’aliquota media effettiva sia di circa il 25%. In altri termini, a prima vista, con la tassa piatta il gettito medio crollerebbe di circa 44 miliardi e il deficit pubblico esploderebbe fuori controllo. Servono dunque meccanismi che mitighino l’effetto. In particolare la Lega fa capire che le famiglie dovranno scegliere: se vogliono la «flat tax», devono rinunciare a tutte le attuali deduzioni e detrazioni che esistono per loro. Ma quanto valgono? Se si sommano gli assegni familiari (1,8 miliardi), il bonus di Renzi (8,9 miliardi) e altri sgravi del genere, si arriva a circa 11 miliardi di economie. Il buco della «flat tax» sarebbe dunque ancora colossale, oltre trenta miliardi. Tutto questo, prima ancora di trovare i 50 che servono per coprire reddito di cittadinanza e pensioni anticipate a «quota 100» nei prossimi due anni. Difficile, per ora, che lo spread dell’Italia su Spagna e Portogallo scenda tanto presto