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Data: 18/05/2019
Testata giornalistica: Il Centro
Così il Tar blinda gli eletti in Regione. Ma gli sconfitti (due volte) ora si rivolgono al Consiglio di Stato

L'AQUILA I giudici del Tar dell'Aquila blindano la legge elettorale abruzzese e i consiglieri eletti. Ma gli sconfitti non alzano bandiera bianca e ricorreranno al Consiglio di Stato dopo aver letto le attese motivazioni di cinque sentenze depositate appena 48 ore fa dal presidente Umberto Realfonzo. Tre di queste si possono praticamente sovrapporre.
IL CASO DEI RESTI. Partiamo dal ricorso dei consiglieri non eletti Emilio Iampieri per Forza Italia e Gianni Bellisario, per Azione Politica, assistiti dagli avvocati Domenico Russo e Massimiliano Mezzanotte, contro Mauro Febbo, assessore della giunta Marsilio assistito dall'avvocato Massimo Cirulli, Roberto Santangelo, vice presidente degli consiglio difeso dai legali Raffaele Daniele e Amedeo Ciuffetelli, e il consigliere Daniele D'Amario, assistito da Paolo Valentino Sisti, Nicola Antonio Sisti e Fausto Troilo. Secondo i ricorrenti l'Ufficio centrale regionale sarebbe incorso in un errore nella ripartizione dei seggi residuali. Il ricorso puntava sul calcolo della cosiddetta "cifra residuale percentuale" che, stando alla legge, si ottiene moltiplicando per cento i resti di ciascuna lista circoscrizionale e dividendo il tutto per il totale dei voti validi espressi a favore delle liste nelle rispettive circoscrizioni. L'ufficio centrale avrebbe però commesso l'errore utilizzando «non già i resti calcolati nella parte decimale (nel caso di Forza Italia 0, 662) bensì il totale dei voti residui (sempre per FI 11.674)». Ma per i giudici amministrativi il ricorso è infondato. Il Tar infatti giunge a questa conclusione: «Il resto di una divisione non è la parte decimale del quoziente, ma è la quantità da sottrarre a un dividendo al fine di renderlo divisibile per un divisore». Sembra un rompicapo che però si riassume semplicemente con il concetto che i resti da moltiplicare per cento sono i voti attribuiti alla lista, e non i decimali. L'estensore della sentenza è il giudice Paola Anna Gemma Di Cesare.
IL CASO FOTOCOPIA. Nel ricorso di Lucia Ottavi, giunta alle spalle di Iampieri nella lista aquilana di Forza Italia, i motivi della sentenza sono identici anche se cambiano l'estensore, Mario Gabriele Perpetuini, e il difensore, l'avvocato Quirino D'Orazio, marito della ricorrente e sindaco di San Benedetto dei Marsi. Ma non cambia il verdetto. Passiamo così al terzo di ricorso.A presentarlo era Lorenzo Berardinetti, consigliere uscente non rieletto difeso dall'avvocato Herbert Simone, nei confronti sia di Sandro Mariani, assistito dagli avvocati Roberto Colagrande, Massimo Speca e Matteo Del Giudice, sia di Santangelo e Francesco Taglieri, il primo di Azione Politica, il secondo del M5S, difeso dall'avvocato Fabrizio Rulli.
I VOTI NON SI GETTANO. Secondo Berardinetti, che correva per la civica Abruzzo in Comune collegata al candidato presidente Giovanni Legnini, i quozienti elettorali circoscrizionali dovevano essere ricalcolati dall'Ufficio centrale senza tenere conto dei voti delle liste non ammesse per non aver superato gli sbarramenti del 4 o del 2%, e cioè Avanti Abruzzo, Centristi per l'Europa e Casapound. Ma per i giudici «il legislatore regionale ha scelto in modo inequivocabile di utilizzare un sistema di calcolo calibrato espressamente sul totale dei voti validi espressi a favore delle liste della circoscrizione». Nessun voto può essere gettato al macero.
NOI CON L'ITALIA C'È. Diverse sono le motivazioni della quarta sentenza che dà torto a un gruppo di elettori difesi dagli avvocati Walter Feliciani e Claudio Verini e che puntava all'annullamento della ammissione della lista Udc-Dc- Idea- Noi con l'Italia che ha permesso a Marianna Scoccia, difesa dalla dagli avvocati Colagrande e Uberto Di Pillo, di essere eletta con un ricco bottino di voti. Il ricorso puntava sul fatto che la lista non aveva presentato le firme avendo tra i propri simboli quello di Noi con l'Italia, partito rappresentato solo nel gruppo misto parlamentare, requisito che, per i ricorrenti, non era sufficiente a identificare la lista.Se i giudici avessero accolto questa tesi ci sarebbe stato un effetto domino con la decadenza anche di Taglieri, Febbo, Santangelo e Mariani, in favore di Iampieri, Berardinetti, Fabrizio Montepara (entrato poi come supplente) e Bellisario. Ma anche in questo caso il Tar ha ritenuto infondato il ricorso perché il regolamento della Camera consente la formazione di componenti politici in seno al gruppo misto a condizione che vi aderisca un numero di deputati non minore a tre. E chiudiamo con il quinto ricorso, che poteva finire davanti alla Corte Costituzionale. Ma così non è stato.
NIENTE CONSULTA. A presentarlo erano Luciano D'Amico. Pierpaolo Pietrucci, Donato Di Matteo e Franco Caramanico, di fesi da Pierluigi Mantini, Giulio Cerceo, Sergio Della Rocca e Stefano Corsi, contro i 5 Stelle in blocco: Sara Marcozzi, Pietro Smargiassi, Giorgio Fedele, Barbara Stella, Marco Cipolletti, Taglieri e Domenico Pettinari, assistiti dagli avvocati Rulli e Ulisse Corea.I mancati i consiglieri collegati al candidato presidente Legnini chiedevano di sanare la sperequazione tra la loro coalizione che ha ottenuto 5 seggi e il M5S che ne ha avuti 7 pur con un numero inferiore di preferenze. Ma per il Tar non è possibile estendere alle liste collegate con un patto di coalizione a un candidato non eletto il principio del premio di maggioranza che, al contrario, ha valore solo per dar stabilità di governo ed è riferibile solo al candidato presidente eletto. I giudici poi liquidano in mezza pagina la questione di legittimità costituzionale sia perché non ha valore sostenere che in altre regioni vengono valorizzati i patti di coalizione anche delle forze di minoranze sia perché la stessa Corte Costituzionale ha ribadito di recente (nel 2018), che «il legislatore gode di un'ampia discrezionalità della scelta dei sistemi elettorali a condizione che il suo esercizio non si traduca nell'adozione di una disciplina manifestamente irragionevole».
STOP A DUE PREMI. Il Tar dunque salva la legge elettorale abruzzese e la sua interpretazione, fatta dall'Ufficio centrale regionale, tanto più se si considera che la norma attribuisce già rilevanza ai patto di coalizione riducendo al 2% la soglia di sbarramento che per le liste che corrono da sole, come il Movimento 5 Stelle, è del 4%. Come dire: non si può premiare due volte una coalizione di minoranza.
RESTANO SUB JUDICE. Ma la partita non si chiude qui perché, interpellati dal Centro, tutti gli sconfitti hanno annunciato di voler presentare ricorso al Consiglio di Stato. Significa che tra luglio e agosto prossimi la spada di Damocle dei ricorsi tornerà a pendere pericolosamente sulla nuova maggioranza di centrodestra che governa l'Abruzzo.

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