ROMA «Sconforto». È l'unica parola che, per ore, nella notte scombuiata dei 5 Stelle, trapela dal quartier generale allestito a Montecitorio. Luigi Di Maio si infila lì, nel bunker, di prima serata, tornato in tutta fretta da Pomigliano d'Arco dove aveva votato di buona mattina, ancora col sorriso stampato in faccia, a favore di telecamere e di selfie. Ma c'è tutto tranne che da sorridere mentre le ore si fanno piccole, così come le percentuali che prima gli exit poll, poi le proiezioni e poi ancora i dati reali attribuiscono al Movimento: circa il 16,6. Molto peggio perfino delle europee 2014, che pure furono una debacle (21,1%). Soprattutto, si conferma la previsione più nefasta, la più temuta: il sorpasso del Pd. Per il Movimento, la disfatta è completa. Dalla prima alla terza piazza. E si apre il processo interno al leader.
LE CONCESSIONI
Le parole del trionfante Salvini in conferenza stampa - «gli alleati di governo sono amici, ora si torna a lavorare serenamente» - riescono ad anestetizzare solo l'angoscia più incalzante, quella di una crisi di governo immediata che esporrebbe gli stellati a un altro tracollo, anche alle politiche. «Il governo va avanti», si fanno forza, allora, i maggiorenti del M5S. «Testa bassa e lavorare, siamo ancora l'ago della bilancia», fa trapelare Di Maio, convinto ora che anche il partito vada riformato. «Serve una cabina di regia per i territori, per rafforzare la base, al Sud scontiamo l'astensione». Non si vedranno solo cambiamenti interni. Toccherà fare più di una concessione all'alleato leghista. Due caselle sono ormai date per scontate: la poltrona di commissario Ue e quella di ministro degli Affari europei, l'incarico che aveva Paolo Savona prima di traslocare alla Consob (ora l'interim è al premier Conte). Ma la portata dell'operazione potrebbe essere più larga, data l'ampiezza della sconfitta.
Inutili, del resto, i raffronti elettorali. Per i grillini è il peggior risultato di sempre, su scala nazionale. Nelle prime ore concitate del post-voto, mentre gli scrutatori ancora annotavano schede e preferenze sui verbali, ai piani alti del M5S si è provato a spostare il mirino del confronto sui dati delle scorse europee, quelle del 2014, quando il Movimento arrancò al 21,1%, in calo rispetto alle politiche del 2013 (25%), quelle del pareggio col Pd versione ditta di Bersani. Ma appena sono arrivati i dati reali, anche quel paragone ha preso a sgretolarsi. L'analisi più dura, in ogni caso, è quella con le politiche dell'anno passato. Quattordici mesi dopo, con un anno pieno di governo gialloverde sull'ottovolante delle schermaglie e degli screzi tra alleati, il Movimento lascia sul campo circa quattordici punti. Basta buttare un occhio ai numeri della tornata del 4 marzo 2018: 10.732.066 voti, vale a dire il 32,68% dei suffragi alla Camera dei deputati. Un successo soprattutto al Sud, dove in tanti si erano aggrappati alla promessa del reddito di cittadinanza. Il Movimento col vento in poppa strappava il 54% a Napoli e provincia, il 49% in Sicilia, il 45% in Puglia, il 43,4% in Calabria, il 42% in Sardegna. E teneva anche nel Nord Italia, alzando l'asticella sopra al 20%, fatta salva qualche eccezione come il Trentino. Nel Veneto, da sempre terra difficile per i grillini, il partito di Di Maio agguantava un buon 24%, stesso risultato a Milano, in Friuli addirittura il 24,6%. E ora? I numeri sono diversi, quasi tutti cambiati in peggio anche rispetto a cinque anni fa.
Nella circoscrizione del Nord Est (Trentino, Friuli, Veneto ed Emilia Romagna), le proiezioni Rai danno i 5Stelle all'11,5%. Ancora peggio a Nord Ovest (Piemonte, Lombardia, Liguria e Val d'Aosta): 10,3%. Anche al Centro, i grillini collassano: 16,2%. Va meglio solo al Sud, dove però l'affluenza è stata più bassa che altrove: 32,5% di voti per il M5S nella circoscrizione del Meridione; 31,8% tra Sardegna e Sicilia.
A TORINO VOTI DIMEZZATI
Altro test negativo è arrivato dalla Capitale, dove da tre anni ormai governa, con più di un impaccio, la giunta di Virginia Raggi. I grillini alle comunali del 2016 conquistarono al primo turno il 35,3%, un bottino da 461mila voti. Per assistere al primo, marcato calo sono bastati due anni: nel 2018, i 5 Stelle erano già scivolati al 30% alle politiche (due punti sotto al dato nazionale di Di Maio) per non dire delle regionali si era votato lo stesso giorno - quando il risultato aveva preso i contorni della disfatta: 22% a Roma, cioè tredici punti sotto le amministrative.
Altra doccia fredda a Torino. Chiara Appendino al primo turno del 2016 superò il 30%. Con due terzi delle sezioni scrutinate, ier M5S era sotto al 14%.
A Roma il boomerang Raggi e pesa "il tradimento" del Sud
ROMA Tarda notte, il Campidoglio è disabitato. E chiuso. Per lutto? Quasi. La sindaca Virginia Raggi segue i risultati da casa, lontana dai vertici del M5S. Su Roma, la Capitale controversa e problematica del grillismo di governo, piovono i dati di questa tempesta perfetta: il Pd è il primo partito, seconda la Lega. I pentastellati inseguono un 20%, senza mai toccarlo. Anzi, più passa il tempo e più la media nazionale si allontana. Alla fine si attesterà su circa un punto percentuale in meno. Per il Movimento di Luigi Di Maio è una crisi nazionale: l'epicentro è a Roma e il virus ha contagiato anche il Sud.
«I cittadini vanno sempre ascoltati», si limita a far trapelare Raggi, rassegnata a pagare lo scotto di questo risultato. Soprattutto perché il Pd di Nicola Zingaretti è davanti a tutti, nonostante le politiche di sinistra messe in piedi dalla giunta pentastellata (dai rom alla guerra a CasaPound), nonostante la forte polemica quotidiana con la Lega di Salvini. La strategia a Roma non ha funzionato. E gli elettori sembrano aver scelto l'originale (il Pd) a fronte di una copia (il M5S rosé). In Campidoglio mettono subito le mani avanti: «Ricordiamoci sempre che il segretario del Pd è anche il governatore del Lazio». L'unica mezza nota positiva è rappresentata dall'exploit di Fratelli d'Italia (nell'Urbe davanti a Forza Italia) che toglie alla Lega la palma del primo partito a Roma, ma è una vittoria di Pirro. Anzi, un pannicello caldo. Nella notte più lunga del M5S, la Capitale è solo uno dei tanti campanelli che suonano all'impazzata. Di Maio è barricato dentro la sua stanza con i ministri Elisabetta Trenta e Alfonso Bonafede. E non ha intenzione di farsi vedere in tv. Di tanto in tanto si affacciano Manlio Di Stefano e Stefano Buffagni, sottosegretari di peso. «Ora dobbiamo resistere al governo. E comunque abbiamo fermato l'emorragia: dopo l'Abruzzo eravamo morti. Matteo? Non romperà. Perché? Forza Italia è ancora viva».
L'ANALISI
Il Capo politico aveva previsto la vittoria della Lega, ma il sorpasso del Pd no. «Un disastro», si lascia sfuggire un colonnello del M5S al Senato. Il vero dato che ha colpito i vertici pentastellati riguarda il Sud. La rivolta del Meridione che non è andato a votare, che non ha scelto in massa il Movimento. Nonostante il reddito di cittadinanza. «Il problema non è certo Barbara Lezzi, titolare del Sud, se non siamo riusciti a far passare i nostri messaggi: il tema è più profondo». E cioè, questa la spiegazione che gli uomini di Di Maio lasciano filtrare, «nel Centro-Sud le europee non sono sentite, chi vive in Sicilia o in Puglia o in Calabria percepisce come lontane le cose di Bruxelles».
Nel M5S le prime amare riflessioni riguardano le scelte compiute dal capo politico. La prima: nominare cinque capilista esterne. «Persone sconosciute che hanno scalzato i big uscenti: una mossa non proprio azzeccata perché non hanno portato un valore aggiunto». Prima di contare dunque le preferenze si ragiona sulla mossa, molto renziana, che però questa volta non ha funzionato. Di Maio si consola anche con un altro ragionamento: «La Lega e FdI non raggiungono il 40%, hanno ancora bisogno di Forza Italia: dunque Matteo andrà avanti con noi, non tornerà mai con Berlusconi».
Sul fronte del programma la cosa si mette ancora di più in salita: la tentazione sarebbe quella di bloccare la Tav tirando fuori che in consiglio dei ministri la maggioranza rimane pentastellata, ma potrebbe essere un azzardo nei confronti del Carroccio. La truppa parlamentare è in fermento. Così come l'ala sinistra dei grillini che rimprovera a Di Maio «troppi mesi di sudditanza nei confronti della Lega, così siamo scesi e poi rialzarci è stato un problema, come stiamo vedendo». Domina comunque l'amarezza in quello che fino a un anno fa era il primo partito italiano e che ora è il terzo. La reazione su questo fronte prevede due mosse: far partire il prima possibile un'organizzazione interna del M5S «per essere presenti sui territori» e cambiare i sottosegretari «che finora non hanno funzionato, soprattutto quelli che fanno capo a ministri leghisti: molti dei nostri spiegano dalla Camera sono stati inesistenti». Problemi del domani, ma questa notte bussa il presente: «Dobbiamo resistere».