ROMA Occhi lividi di una notte insonne, mani nervose, silente. Dopo aver ascoltato le critiche di tutti i maggiorenti del M5S Luigi Di Maio prende la parola: «Ditemi se vogliamo andare avanti o no. Se dobbiamo staccare la spina al governo». È metà pomeriggio e al ministero dello Sviluppo economico, dopo una conferenza stampa elettrica, ha riunito big, fedelissimi e consiglieri. Ci sono Rocco Casalino, che sarebbe il portavoce del presidente del Consiglio; Alessandro Di Battista, costretto dagli eventi a mettersi in gioco; i ministri Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede, angeli custodi di Luigi; i sottosegretari Vincenzo Spadafora, Carlo Sibilia e Stefano Buffagni; il capogruppo al Senato Stefano Patuanelli con la vicepresidente Paola Taverna e Gianluigi Paragone, il deputato ex direttore di Skytg24 Emilio Carelli. La risposta del gabinetto di guerra è unanime: andiamo avanti. Ma come? E soprattutto con quale atteggiamento nei confronti di Matteo Salvini? Si decide che il M5S si strutturerà come un partito. Con una segreteria che terrà conto di tutte le anime. Ergo le correnti. In questo organismo entrerà anche Di Battista: «Non siamo come il Pd - dice - non sono come D'Alema con Renzi. E' la scoppola più grande della nostra storia, ma siamo sempre ripartiti».
LA MOSSA
Si decide dunque di andare avanti e di «tenere duro» sui temi identitari, sapendo che Salvini questa volta non farà sconti. A Di Maio viene rinfacciato l'atteggiamento «remissivo» dei primi mesi di governo e anche la strategia sbagliata nella scelta dei capilista esterni alle Europee. «Non hanno portato un valore aggiunto». Nelle isole (Alessandra Todde) e nel Nord Ovest (Mariangela Danzì) sono fuori, le altre ce l'hanno fatta ma sono arrivate seconde. Adesso si apre un altro fronte: il M5S non è riuscito a formare un gruppo autonomo, ora dovrà trattare al ribasso con i Verdi o con l'Alde (ipotesi più possibile). Ma è la tenuta del M5S che preoccupa Di Maio. La notte del voto non ha parlato, e ieri mattina è stato svegliato dal tweet sarcastico di Beppe Grillo: «Oggi Radio Maria e Canti Gregoriani». All'ironia del Garante, che si tiene fuori, si aggiunge poi la rabbia e la preoccupazione di Davide Casaleggio. Il figlio del fondatore domenica ha scambiato diversi messaggi impazienti: «Così non si va da nessuna parte, dobbiamo cambiare e molto». Rousseau è sempre più marginale, la scelta dei candidati esterni ha tradito lo spirito del Movimento: Casaleggio jr ripete questi ultimi fatti che suonano come accuse nei confronti di Di Maio.
LA CONFERENZA STAMPA
Subito dopo pranzo, il Capo politico dei grillini si presenta davanti a taccuini e telecamere. Fa mea culpa: «Per noi è andata male, impariamo e non molliamo». Poi però il vicepremier svela un retroscena: «Ho sentito Grillo, Casaleggio, Fico, e Di Battista. Nessuno ha chiesto le mie dimissioni. Si vince insieme e si perde insieme. Nessuno ha fatto una questione di teste da saltare». Nel frattempo, visto che la situazione è molto fluida, si decide di sconvocare la riunione dei gruppi parlamentari in programma in serata. Si farà domani sera. Sperando che nel frattempo la situazione sia decantata. La prima risposta interna sarà la creazione di una segreteria politica («Che non sarà un direttorio») ma che toglierà a Di Maio lo strapotere sul Movimento. Un commissariamento soft, con la scusa di decisioni corali.
Dal vertice esce una linea aggressiva, forse figlia del «buio» di queste ore: «Non dobbiamo mollare sui nostri temi e portare avanti il contratto». Il rischio che questo diventi un governo Salvini con la Lega pronta a dettare l'agenda su tutto c'è. Di Maio chiede subito un «vertice» a Palazzo Chigi. Apre alla flat tax e chiude all'Autonomia che divide l'Italia. Prova a rivendicare l'estromissione di Armando Siri dall'esecutivo, anche se Salvini lo ha appena riabilitato; sa che le dimissioni del viceministro Edoardo Rixi (in caso di condanna per le spese pazze in Liguria) saranno un problema destinato a esplodere tra tre giorni. Alla riunione partecipano - oltre a Casalino - anche gli altri vertici della comunicazione. Si punta su Di Battista, sperando che rinvii la partenza per l'India. E che Salvini voglia andare avantii. Ma i presenti commentano: «È già in campagna elettorale».
La mina dello Spacca-Italia: sull’autonomia può saltare tutto
ROMA No pasaran. Era il grido di battaglia degli anti-franchisti nella guerra civile di Spagna. Ed è, idealmente, la scritta che campeggia sulla bandiera issata dai resistenti grillini, feriti e sbandati, sconfitti ma con qualche energia residua da spendere, sulla trincea dell'autonomia. Quella nel campo di battaglia più infuocato, su cui può saltare il governo. Poi magari Di Maio su questo cederà alle «pretese» - così le chiamano i 5 stelle - di Salvini sulle autonomie fortemente volute dai governatori leghisti del Nord, ma intanto vuole vendere cara la pelle. Ben sapendo che contro lo Spacca-Italia, gran parte del Paese, delle autorità istituzionali, dei sindaci e dei presidenti di regione (ma non Zaia, non Fontana) è schierata in difesa dell'unità nazionale e dell'equilibrio economico, politico. culturale tra le varie parti della Penisola. Riusciranno i grillini a fare sponda con tutti, pur di fermare Salvini almeno sulla linea del neo-regionalismo?
SOSPETTI
I sospetti dei pentastellati meridionali, area Fico, è che Di Maio per quieto vivere - «Ma non capisce che la quiete sarà impossibile con un Carroccio diventato panzer?» - non avrà voglia né forza di opporsi all'offensiva leghista in favore del lombardo-veneto. Ma se Di Maio, che ormai è commissariato, cede sulle autonomie, vanifica il poco che gli è rimasto tra le mani nel voto di domenica scorsa. Ossia i consensi del Sud, dove M5S è ancora primo partito ma le ambiguità pentastellate sul processo neo-regionalistico - c'era anche il movimento grillino tra i promotori dei referendum del lombardo-veneto sullo Spacca-Italia - devono avere influito non poco nell'allontanare gli elettori del Sud dalle urne. E lì infatti l'affluenza è stata più bassa che nel resto d'Italia. Dunque, finché si può, si lotta. E Di Maio, ai suoi, fa questo ragionamento: «Il problema non è l'autonomia in sé, ma di come si scrive quel provvedimento. Se l'autonomia proprio si deve fare, non deve creare scuole e sanità di serie C al Sud, a tutto vantaggio invece delle regioni settentrionali. L'autonomia si farà, ma rispettando la coesione nazionale». Che è come dire: provo a resistere. Più energici di lui, nella resistenza, sono Fico e Di Battista.
Non sarà facile perché Salvini deve forzare su questo dossier, sul quale Zaia e Fontana non accettano più dilazioni. Vogliono andare all'incasso, a dispetto dei vincoli che tengono insieme il nostro Paese e bypassando la questione romana che resta fondamentale: non è possibile trasformare alla radice l'assetto territoriale e istituzionale dell'Italia senza ripensare e rilanciare il ruolo di Roma che specie di fronte a un progetto così non può che avere - questo sarebbe l'interesse nazionale - più poteri e non meno, più forza e non la condanna al depauperamento. Questioni basilari. Su cui il Carroccio crede di poter passare sopra con i propri cingolati.
L'EPILOGO
Il Parlamento sarà il Vietnam delle autonomie. E lì, anche con la regia del presidente Fico a Montecitorio, potrebbe saldarsi l'asse tra M5S e il Pd, ma in più ci sono Forza Italia e Fratelli d'Italia su posizioni anti-leghiste. Un fronte largo che preoccupa Salvini, e infatti si è cercato di fare di tutto per evitare il passaggio parlamentare del contestato progetto. «Le autonomie saranno le forche caudine della Lega», assicurano i 5 stelle. Ma se forche caudine saranno lo potranno essere anche dei pentastellati, in questo senso: «Se i grillini ci bloccano, il governo muore», è il mantra lumbard. La partita è ad altissima pericolosità. La Lega pretende dall'alleato un sì allo Spacca-Italia, anche senza sottostare al giogo della merce di scambio con salario minimo e provvedimenti per le famiglie. «Se cedi su questo - è il pressing dei suoi su Di Maio - è davvero finita». Ma se non cede, può essere finita lo stesso.