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Pescara, 24/07/2024
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Data: 09/07/2017
Testata giornalistica: Mapero'
La dignità perduta di Lilli Mandara

#LaDignitàPerduta (Personaggi e interpreti: tutti in cerca d’autore. Genere: Commedia all’italiana)

Questa volta, cari Maperolisti, devo raccontarvi di un film davvero brutto che mi è capitato di vedere in questi giorni. Uno di quei film in cui proprio non riesci a salvare nulla: né gli attori, né la storia, né il finale. Uno di quei film (finora l’unico tra quelli di cui vi ho parlato) dove non solo non riesci a trovare il buono o il bello, ma ti convinci che ai malcapitati (come me) possa fare proprio male. Una lezione (perniciosa) di diseducazione, arretratezza culturale, volgarità, indifferenza, faciloneria. Insomma, ve ne parlo proprio per evitare che voi, per caso, entriate al cinema magari per rinfrescarvi ed incappiate in questo obbrobrio. Pensate: non sono nemmeno riuscita a comprendere quale fosse la collocazione temporale, storica, di questo triste cortometraggio. Anche perché era muto, forse un modo per renderlo fortemente espressivo: le immagini parlavano da sé e non avevano bisogno di commento. I protagonisti: uomini di mezza età, uomini pubblici: riuniti per dirsi bravo l’uno con l’altro. Erano queste le loro facce: tra l’autocelebrativo e la consapevolezza di trovarsi dalla parte giusta. A prescindere, come diceva il grande Totò. A prescindere dal fatto, per esempio, che dietro di loro, mentre sedevano non troppo composti a discutere di chissà che, in piedi, cinque o sei ragazze reggevano degli ombrelli a proteggerli dalla pioggia. Prima. E poi dal sole. Il pubblico (perché davanti c’era un pubblico, persone che ascoltavano come vangelo le parole di quegli uomini) era completamente indifferente allo stridore di quella immagine, così brutta ma così brutta nella sua immobilità senza tempo che avrei proprio preferito non vederla. Insomma, nessuno sentiva l’imbarazzo di quella situazione: era normale che mentre cinque o sei “maschi” si occupavano dei massimi sistemi, cinque o sei “femmine” li proteggevano dagli agenti atmosferici, come oggetti inanimati che ben potevano bagnarsi o assolarsi al posto loro. Ad un certo punto accadeva un fatto che spezzava la fissità della scena: qualcuno (fuori campo: prima una sola voce di donna, poi diverse, uomini e donne, voci sparse, sempre meno timide. Ed il corto smetteva di essere muto) protestava per quella scena di ordinaria insensibilità. Diceva a tutti che l’immagine degli ombrelli immortalava una sconfitta, che non la si poteva guardare con indifferenza, che bisognava ribellarsi a tanto affronto. Ragazze, diceva: nel nostro mondo (occidentale, lasciamo stare il resto, parliamo di Italia) abbiamo il diritto di voto da soli settant’anni, da meno di sessanta possiamo partecipare a concorsi pubblici, abbiamo sudato ogni singola conquista di dignità. Noi donne. Nemmeno una di noi è mai stata al Quirinale o a Palazzo Chigi, per dirne qualcuna. Nelle stanze dei bottoni siamo mosche bianche, quote da proteggere come animali in via di estinzione. Non lasciamo che l’orologio della nostra storia vada indietro con le lancette: l’effetto nefasto di questa immagine servile!
Il pubblico, al cinema, era esterrefatto. Assistevamo ad uno spettacolo di incomunicabilità, che nemmeno Pirandello avrebbe potuto immaginare più perfetto. La realtà era lapalissiana ma molti non la vedevano ed anzi. Reagivano. E di brutto: sentite come (questa volta, cari Maperopolisti, vi dirò anche la fine del film, così certamente non vi farete prendere dalla curiosità di vederlo). Tutti, ma proprio tutti gli attori iniziavano a sghignazzare rumorosamente nella direzione di quella Cassandra che aveva cominciato a protestare e di coloro che coraggiosamente l’avevano seguita. E poi anche le donne, le servili ancelle parapioggia ed anche qualche ragazza nel pubblico, la irridevano e dileggiavano. Una scena di sottile violenza, anche senza fisicità. Alcuni vicino a colui che appariva come il capo di quella brigata di soloni autoreferenziali (il Padrone, l’Ospite, l’Ispiratore) urlava “befana!” suscitando altri scoppi di risa. “Befana”. Quello che si dice alle donne quando danno fastidio, quando non stanno al loro posto. Quando non dicono di essere felici a tenere in mano un ombrello anziché una penna. Quando si ribellano ad una narrazione senza tempo dove nulla cambia mai e nessuno lo ammette. Quell’insulto, “befana”, era peggio della scena di prima. Peggio del servilismo. Uscendo dal cinema ho pensato che quel film era brutto per un motivo: perché era vero. Perché era la foto di una cosa avvenuta molto vicino, che dimostra a che punto siamo e che forse non sappiamo bene dove andare.
Come quelli della grotta di Platone. Troppo tempo al buio, che la luce poi diventa fastidiosa. E nemmeno si comprende che è luce.
Avete ragione: d’estate meglio leggere un libro, al cinema solo grosse schifezze.
P.s. Per consolarmi mi sono rivista Mary Poppins. Ve lo consiglio. Volare sui tetti con l’ombrello. Questo ci si addice. Ma le pillole non fatele andare giù, che fanno male, pure con lo zucchero.

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